Opinioni

Guasti (e balletti) idrogeologici d'Italia. Undici miliardi in cerca d'autore

Antonio Maria Mira venerdì 15 novembre 2019

Il 27 luglio 1967, a meno di un anno dalle disastrose alluvioni che tra il 3 e il 7 novembre 1966 travolsero Firenze e Venezia, con l’acqua alta record di 194 centimetri, 7 più di quella che l’ha sommersa in questi giorni, venne istituita la "Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo". Conosciuta come Commissione De Marchi, dal nome del suo presidente, Giulio De Marchi, ingegnere idraulico, tra i maggiori esperti italiani di allora, e costituita da illustri studiosi. Concluse i suoi lavori il 16 marzo 1970 e depositò la relazione conclusiva il 30 giugno dello stesso anno. Un lavoro enorme, ben 5 volumi per oltre 2.800 pagine, completo, una pietra miliare dell’analisi del dissesto idrogeologico e delle proposte per combatterlo efficacemente e mettere in sicurezza il territorio. Citatissimo. Ma inattuato. Nell’arco di 30 anni prevedeva una spesa di circa 9mila miliardi di lire, pari a circa 76 miliardi di euro rivalutati ad oggi, circa 2,5 miliardi di euro per anno. Tanti? Troppi? Comunque non si fece nulla, o quasi. Mentre in Italia era il boom di case e palazzi, e del consumo del suolo. Ne paghiamo le conseguenze: solo i danni per frane, alluvioni e erosioni ci costano 3,3 miliardi l’anno. Molto più di quello che sarebbe servito per evitarli, aprendo finalmente quel grande cantiere che è la sicurezza del Paese. E mentre non ci difendiamo, la natura, ferita dalle scelte sbagliate, reagisce in modo sempre più estremo.

Fa venire i brividi quello che la Commissione De Marchi scriveva quasi 50 anni fa, denunciando «i possibili effetti delle crescente immissione di fumi nella atmosfera, che potrebbe influire sul regime e sulla quantità delle precipitazioni, sia di anidride carbonica che, aumentando in percentuale di questo gas nell’atmosfera e diminuendone la permeabilità alla radiazione terrestre, tenderebbe ad aumentarne ulteriormente la temperatura». Sì, proprio i mutamenti climatici. Mezzo secolo fa. Un allarme che arrivava da una fonte istituzionale, in Italia la più autorevole. Ma anche questo inascoltato. Oggi, malgrado assurdi negazionismi, l’innalzamento della temperatura è riconosciuto come effetto dell’eccesso di CO2, prodotto dall’attività umana, e come causa dell’aggravarsi dell’impatto meteorologico. Nel nostro Paese negli ultimi dieci anni gli eventi estremi (le cosiddette "bombe d’acqua", i tornado, le grandinate, ecc.) sono triplicati, passando dai 395 registrati nel 2008 ai 1.042 del 2018. E se nulla o poco si fa per difendere il territorio il risultato è quasi scontato. Drammaticamente scontato.

Piove di più, in modo più violento e concentrato, ma non compriamo l’ombrello. Si dice sempre che costa troppo e che i soldi non ci sono. A parte che, come abbiamo visto, poi si devono trovare per riparare i danni, in realtà i soldi ci sono. E neanche pochi. Ma non si spendono. Perché sono in troppi a dovere o volere decidere, si rivendicano competenze, tra vari Ministeri e tra Governo e Regioni. E alla fine si rallenta tutto. Servirebbe, invece, un coordinamento centrale veramente operativo. Accentrare? Sì, su questo tema non sarebbe una guerra alle autonomie. «La difesa del territorio nazionale contro gli eventi idrogeologici – scriveva De Marchi nella sua Relazione finale – risponde a un pubblico vitale interesse... La difesa deve essere organizzata e condotta con uniformità di indirizzi e unità di attuazione per l’intero territorio». Nel 2014 ci si provò istituendo presso la Presidenza del Consiglio la struttura di missione #Italiasicura. Riuscì a trovare 9,5 miliardi, recuperandoli da tanti rivoli di leggi e leggine. Ne ha spesi 3 per 1.475 opere tra le quali Genova, l’Arno e la Calabria, situazioni ad altissimo rischio.

Era stato predisposto un Piano nazionale per più di 10mila opere e si prevedeva di spendere 30 miliardi in 15 anni, 2 all’anno, meno di quanto prevedeva De Marchi e molto meno dei danni annuali. Ma tutto si è fermato, dopo la frenata potente impressa con l’arrivo del governo giallo-verde che ha abrogato la struttura trasferendo la competenza al Ministero dell’Ambiente, ma senza togliere quelle degli altri dicasteri.

Così, mentre piove sempre più violentemente, non si riescono a spendere i fondi: bloccati i 400 milioni per la messa in sicurezza del Sarno (l’enorme frana del 1998 provocò 160 morti), gli 800 per la Sicilia (un anno fa a Casteldaccia per l’esondazione di un torrente morirono 9 persone) e 120 per il Seveso che regolarmente esonda invadendo Milano. Fondi che, lo ripetiamo, ci sono. Sei miliardi li ha ancora il Ministero dell’Economia (eredità #Italiasicura), 3 sono fondi regionali, 2 li ha il Ministero dell’Ambiente. Ben 11 miliardi, pronti, disponibili. E l’Europa ha risposto positivamente alla richiesta italiana di flessibilità per queste spese. Serve qualcuno che coordini, che richiami ognuno alla proprie responsabilità, che coinvolga i territori, a partire dalla Regioni, senza imporre ma convincendo, affiancando e, se necessario, sostituendo. Ma deve essere autorevole. Un ritorno alla Presidenza del Consiglio?

A marzo è stato presentato "ProteggItalia", il Piano nazionale per la sicurezza del territorio. Coinvolti vari Ministeri ma la "cabina di regia" torna a palazzo Chigi. Cifra prevista? Proprio undici miliardi. Una positiva correzione. Purché ora si spendano davvero. Anzi s’investano. In fretta e bene.