La direttiva sulla sostenibilità. Una via europea sui diritti umani
Con la rivolta dei trattori e le esitazioni sulla direttiva sulla sostenibilità sociale e ambientale (Corporate sustainability due diligence directive, Csdd), che introduce standard più elevati sui diritti umani nella filiera del prodotto, cresce il lamento dei produttori europei e la paura del nuovo di fronte alla transizione ecologica e alla costruzione di un’economia sostenibile in grado di mettere finalmente al centro la persona e la sua dignità. Non possiamo fare i “primi della classe” - sostengono agricoltori e produttori, spalleggiati dalle forze politiche a caccia di consensi, su ambiente, diritti umani e persino pesticidi - se poi la concorrenza estera che non rispetta quelle regole ci sbaraglia con prezzi molto più competitivi.
Siamo davvero sicuri che non ci sia alternativa al sentirsi prigionieri di una corsa al ribasso su salute, diritti del lavoro, ambiente da cui perdiamo tutti? L’approvazione, oggi, da parte del Consiglio Ue, della Direttiva sul rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori rappresenterebbe un primo passo in avanti per uscire dall’impasse.
Abbiamo infatti costruito, teoricamente e nella pratica, un modello economico che confonde il ben-vivere con il surplus del consumatore. Che ne sarà certo una parte significativa, ma non certo totalizzante. E queste sono le conseguenze: la Bengodi del consumo danneggia non solo i diritti umani e la dignità del lavoro dove i prodotti vengono realizzati, ma anche il nostro stesso interesse come lavoratori. Quante sono le storie di crisi aziendali in cui la proprietà rappresentata da fondi senza volto aveva delocalizzato la produzione in Paesi dove il costo del lavoro è più basso?
Una via d’uscita dal dilemma esiste, dicevamo, e ne parliamo da tempo su queste colonne: si chiama “Border adjustment mechanism” e prevede che una merce che arriva alla frontiera europea senza dimostrare di essere stata prodotta rispettando i nostri elevati standard sociali e ambientali paghi tutta la differenza di prezzo, evitando così di fare concorrenza sleale e al ribasso sulla dignità del lavoro e l’emergenza climatica.
Il principio - un appello sul tema negli Stati Uniti è stato firmato da più di un migliaio di economisti e decine di premi Nobel - è stato finalmente avviato a sperimentazione dal primo ottobre 2023 su un ambito limitato, acciaio e alluminio, e relativamente alla sola questione ambientale (“Carbon border adjustment mechanism o Cbam sulle emissioni di CO2). Le cose non sono mai semplici, perché anche questa misura di “protezione etica” presenta limiti e svantaggi e ha suscitato la protesta non solo dei concorrenti esteri (cinesi in primis) ma anche di molti dei nostri produttori. Le filiere internazionali del prodotto sono infatti ormai caratterizzate da un elevato commercio transfrontaliero di semilavorati - e dunque la tassa di frontiera sulle emissioni - finiscono per pagarla anche i nostri produttori nella misura in cui il loro prodotto finito dipende da importazione di materia prima o semilavorati da Paesi che non rispettano i nostri standard ambientali. Nonostante queste difficoltà, il Cbam sta iniziando a produrre i frutti attesi rendendo la sostenibilità ambientale un fattore competitivo e invertendo la corsa al ribasso su diritti e ambiente che caratterizza il commercio internazionale quando l’unico criterio di benessere diventa il prezzo.
La risposta per il futuro è dunque quella di estendere questa soluzione alla questione dei diritti umani, superando la percezione che la Corporate Sustainability Due Diligence ci ponga in uno svantaggio competitivo. E per farlo è necessario accompagnare al cambiamento persone e imprese per non lasciarle in balia di quella politica che, puntando al consenso di breve respiro, specula su chi ha paura del nuovo.