La bellezza della festa passa anche dal bere e dal mangiare bene «I o faccio nuove tutte le cose», recita un versetto dell’Apocalisse di Giovanni. E con esso la mia mente va a quella mostra, “Il linguaggio delle cose”, allestita a palazzo Palazzo Bargnano Dandolo di Adro, nella Franciacorta dei vini, dedicata al concittadino padre Costantino Ruggeri, alla vigilia dei suoi 100 anni dalla nascita (ottobre 1925). Un artista incredibile, le cui opere più famose sono forse quelle di vetro e piombo, che adornano chiese e complessi parrocchiali, santuari, cappelle e cenacoli di preghiera di istituti religiosi. E questo a Pavia, Rho, Mantova, Roma, fino in Giappone, dove nel 1993 progetta, a Yamaguchi, il santuario di San Francesco Saverio, solennemente inaugurato nell’aprile del 1998. Ma la mia prima vetrata di padre Ruggeri l’ho vista a Barolo, in una cantina che produce il celebre vino della Langhe, dove la famiglia Vajra ha voluto questo sole che illuminasse l’oscurità delle botti da invecchiamento e anche la loro vita. Tuttavia, visitando la mostra nella sede del Comune di Adro, ciò che colpisce delle opere restano gli oggetti di scarto, quasi un messaggio verso gli ultimi che abitano le periferie: delle città, del mondo, delle varie società. Così lui adopera i fili delle ragnatele per disegnare capolavori, oppure vecchie tavole di legno inutilizzate, che riprendono vita, nel segno della Bellezza. «La bellezza salva la mia giornata, devo scoprirla ovunque », sussurra la sua voce da una video intervista, dove questo umile frate dimostra che ci si può nutrire dell’essenziale. Della bellezza appunto, del gusto, che significa soddisfazione, ma guai quando diventa assuefazione, frutto di un’irragionevole ostentazione. Ed è proprio questa la contraddizione dentro cui si rischia di cadere durante le Feste di fine anno: da un lato (sempre più a lato), il bambino di Betlemme, dall’altro, un florilegio di cibarie, regali, festicciole e auguri formali, talvolta anche seriali, che sembrano voler oscurare il significato di chi invece è venuto al mondo per fare nuove tutte le cose. Eppure, proprio nel cibo condiviso c’è la cifra del dono, ossia di chi è venuto al mondo per farsi compagno di strada di ciascuno di noi. C’è il gusto nel cibo, dunque, che non è appannaggio del ricco o del povero ma di chiunque si approccia a esso. Il pranzo di Natale o quello della vigilia assumono allora il significato di partecipare alla vita, cioè di quel Dono che riguarda ciascuno e che, con la venuta di Gesù, è come se avesse fatto nuovo il significato stesso di stare su questa terra. La bellezza dunque è una promessa per tutti, che risponde al bisogno – sono le parole di padre Ruggeri – «di essere vivo», anche in un mondo in fiamme che vuole cancellare quel senso di eterno. E se nella vita di tutti i giorni si insidia il pericolo dello spreco, che diventa talvolta anche quello del cibo poi gettato via, esiste anche lo spreco degli istanti, delle occasioni di incontro, delle relazioni che spesso finiscono in pasto all’edonismo. Oppure possono diventare quell’irrompere di qualcosa che riverbera il Dono. Come evoca magistralmente il generale durante
Il pranzo di Babette, dove un vino, pur buono, comincia a fare dei racconti: su chi siamo e di quale stoffa umana siamo fatti che è quella di chi ha l’occasione di riconoscere il bene, il buono, il bello che c’è su questa terra. Per questo, nella sequenza finale del pranzo allestito da Babette, c’è il silenzio, che è proprio come quello dell’artista che forgia l’opera. Il quale non potrebbe fare diversamente per potersi alimentare di quel rapporto intimo che solo il silenzio sa dare e che poi diventa arte, ossia qualcosa che traduce il vero. Ecco, anche la nostra tavola, luogo di relazione, ha bisogno di meno chiasso, perché persino il gusto possa raccontare il nostro intimo
Te Deum. Poche buone cose e tanto ascolto: di chi ci è accanto, di chi è lontano, di chi può persino arrivare a parlare dentro al nostro cuore. © RIPRODUZIONE RISERVATA