Chissà cosa avrebbe detto Montesquieu di fronte alle reazioni suscitate dall’invito dell’Oms a limitare il consumo di carni rosse, fresche e lavorate, per la loro associazione con alcune tipologie di tumore. Forse avrebbe rispolverato il suo celebre detto: una salute conservata con una dieta troppo severa, è una noiosa malattia. La questione sollevata dall’Oms è tuttavia rilevante e merita di essere considerata con attenzione, essa non riguarda infatti solo la salute, ha effetti invece sul mangiare tout court, sul suo significato, e quindi su tutti noi indistintamente. È sotto gli occhi di ognuno che l’uomo non mangia solo per vivere. Se così fosse non si sarebbe inventato l’aperitivo per farsi venire più appetito, non avrebbe pensato di imbandire la tavola per starci meglio e nemmeno di invitare gli amici per cena. Si sarebbe limitato a introdurre sufficienti calorie per le sue attività. Non c’è nulla di naturale nel mangiare, al contrario di quanto forse si pensa. Il gorgonzola cremoso da spalmare sul pane, l’arrosto di vitello con il suo sughetto, le patate dorate al forno, la crostata di mirtilli e la macedonia non esistono in natura, sono dei meravigliosi artefatti dell’uomo, vere opere di ingegno. Neanche una banale insalata di pomodori è naturale: non può darsi senza l’intervento di qualcuno che abbia coltivato i pomodori, raccolto e spremuto le olive, ricavato il sale dall’acqua del mare e fatto inacidire il vino nelle botti con la madre. Anche lo stesso moto del mangiare, che riteniamo così scontato, non è un dato di natura, ma si costituisce grazie all’intervento di un altro. Tutto è partito, per ciascuno di noi, dall’offerta di qualcuno - la mamma che ha scoperto il suo seno ma anche la balia che ha porto il biberon in sua mancanza - che ci ha fatto sperimentare per primo la soddisfazione derivante dal tepore sulle mucose della bocca, dal sapore dolciastro sulle papille, dalla distensione dello stomaco e dalla conseguente pace successiva, così potente da far subito addormentare. Sensazioni, percezioni, esperienze inimmaginabili prima che qualcuno le rendesse possibili. Dal momento di quel primo eccitamento è sorto in noi il desiderio della sua ripetizione, ricercata all’inizio con un pianto che la reclama e poi con la preparazione più sofisticata delle condizioni perché possa realizzarsi. L’organismo ha così fatto un salto, da puro antecedente biologico si è costituito come corpo, è stato vivificato dal suo pensiero che cerca soluzioni. Per l’uomo, infatti, mangiare diviene una questione di soddisfazione. Una soddisfazione peraltro sociale, innescata dall’offerta dell’altro e non autogenerata.Ridurre il mangiare a pura introduzione equilibrata di carburante per l’organismo - con lo scopo di soddisfare il metabolismo basale più la quota necessaria all’attività fisica e cerebrale - è un processo che presto o tardi finisce per mostrare il suo aspetto patologico. Ce lo insegna tristemente l’anoressia: essa ci dimostra come lo stimolo della fame, da tutti ritenuto così insopprimibile, possa in realtà essere ignorato e negato fino alle conseguenze estreme. L’obiezione patologica al cibo non è innanzitutto all’introduzione degli alimenti, ma al farsi commensale, al mangiare-con, alla compagnia dell’altro. È esperienza comune come a tavola non si mangi solo il cibo servito, ma anche le parole che ci diciamo l’un l’altro. Sono i nostri discorsi a essere il reale companatico nei pranzi e nelle cene della nostra vita, prova ne è che in compagnia tendiamo a mangiare di più, così come allo stesso modo fatichiamo a sederci a tavola con chi non ci è gradito. Il non mangio più spesso inizia con non mangio più con te.È meglio non accogliere acriticamente, e tanto meno con fideismo scientifico, ogni raccomandazione che leggiamo sul cibo per evitare di assumere una posizione prettamente salutistica e nutrizionale. Sul gusto personale e sulla dimensione sociale finirebbe per prevalere la paura di ammalarsi e, ultimamente, di morire. Il cibo, in questa unica prospettiva, verrebbe s-naturato per essere ricacciato in una presunta naturalità biologica. Prede di voci spesso allarmistiche oggi effettivamente corriamo il rischio di sederci a tavola carichi di troppe angosce, preoccupati dai pericoli per la salute, ossessionati dall’origine degli alimenti e dai potenziali effetti negativi su di noi. Questo eccesso di paura non serve e neppure ci aiuta a stare meglio, anzi. Soprattutto non è affatto necessario per prenderci cura di noi stessi, si può partire anche da un’altra prospettiva per arrivare allo stesso traguardo.
È proprio perché il corpo è una questione di soddisfazione dentro il rapporto con un altro che ci conviene trattarlo bene, anche con ciò che mangiamo. Un soggetto che sta bene non desidera sfondarsi con il cibo, non eccede con ciò che potrebbe procurargli un male futuro, sa dire "basta così" per il fatto che satis, "basta così", è il motto della soddisfazione. Una dieta varia, dove c’è posto per tutto, senza fissazioni, eccessi o rinunce, è innanzitutto figlia di un pensiero sano orientato al ben-essere, prima di essere l’applicazione di principi dietologici e medici. Gli inviti dell’OMS e di ogni altra istituzione che fornisce raccomandazioni scientifiche sull’alimentazione hanno l’indubbia l’utilità di provocarci a valutare bene cosa mangiamo, a non improvvisare troppo, a non essere superficiali. Nessuna obiezione quindi a raccogliere l’invito a curare ciò che si porta in tavola, affinché non nuoccia per quantità e varietà al nostro corpo, ma non fermiamoci lì. Di nostro aggiungiamoci anche la cura della forma che facciamo assumere all’atto del mangiare. Significa che mentre rispetteremo il corpo nostro e dei nostri commensali con i cibi migliori, ci preoccuperemo anche che i nostri discorsi facciano bene a noi che li pronunciamo e a chi li ascolta, che ci sia un clima in cui chi vuole può raccontarsi o ascoltare. Un clima sereno, agli antipodi della paura.
Dentro le nostre agende quotidiane sempre più fitte di impegni in cui la colazione è spesso fatta separatamente e di fretta e il pranzo non può più essere consumato insieme, il momento della cena rappresenta davvero l’occasione principale per trovarsi in famiglia. Oggigiorno possiamo considerarlo il momento narrativo per eccellenza, un tempo prezioso, un appuntamento da privilegiare il più possibile da parte di chi riesce a esserci. In esso non promuoviamo tanto una comunicazione forzata, come fosse un interrogatorio, quanto un flusso di parola gradito e spontaneo. Pensiamo, ad esempio, a quanto ci lamentiamo del fatto che i ragazzi non ci dicono niente delle loro giornate quando invece siamo noi i primi a non raccontare nulla di noi stessi. E dire che ai più giovani piace tanto sapere di noi, di cosa combiniamo quando siamo fuori, delle esperienze che facciamo e di come le giudichiamo. Uno scambio di parola in atto fra gli adulti renderà di sicuro più facile ai ragazzi intervenire dicendo la loro, aggiungendosi ai grandi che già si raccontano. Usciremo così dalla spirale del "Come è andata? Bene" e "Cosa hai fatto? Niente!". In aggiunta i figli sapranno anche qualcosa in più di noi, si faranno un’idea più precisa di che cosa vuol dire essere grandi, avere diverse responsabilità, lavorare, stare con gli amici, coltivare una passione.
Da una parte non conviene che la tentazione igienico-salutistica sul cibo, che nel suo estremo medicalizza l’atto del mangiare, rovini la grande possibilità del gusto e della convivialità che ciascuno di noi è in grado di sperimentare a tavola. Dall’altra sarebbe un errore ignorare e non raccogliere le raccomandazioni che la ricerca medica - quando ben condotta, ragionata e priva di sensazionalismi - ci propone per il mantenimento del nostro stato di salute. Stare bene è innanzitutto nostro interesse. In fondo l’aveva già identificato Cicerone: il piacere dei banchetti non si deve misurare dalle ghiottonerie della mensa, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi. Forse oggi più che mai, con le tante informazioni che abbiamo a disposizione, conviene tenere presenti e vivi entrambi gli aspetti: è davvero possibile mangiare bene, in salute e in compagnia. Senza eccessive paure, e senza facilonerie.