Piccoli morti di fame a Kabul. Una strage senza bombe uccide otto bimbi e la pietà
Erano otto fratellini, dagli otto anni ai diciotto mesi, nati uno in fila all’altro come accadeva cento anni fa nelle nostre campagne. Attorno, Kabul: l’arrivo dei taleban, gli arresti, le fughe, le vendette. Il padre e la madre di quegli otto, un giorno, non sono tornati. Morto il padre, della madre malata di cuore e ricoverata non si conosce il destino, affermano un parlamentare afghano e Save the Children, che denunciano come gli otto fratelli siano morti di fame. Li hanno trovati in casa, rannicchiati a terra, abbracciati. Chi ha rimosso i corpi li ha pietosamente coperti con un telo: ma – ed è la foto che compare su web e giornali – dal telo spuntano due paia di scarpe da ginnastica, un paio rosa, un paio azzurro. Scarpe di bambini sui sette o otto anni. Il fratello maggiore, la sorella che a sette anni già bada ai più piccoli. È terribile immaginare le ore di attesa vana in quella casa, quando scendeva la notte, e né il padre né la madre tornavano. Sussultavano forse, i bambini, ai passi che sfioravano la porta - ma poi si allontanavano. Forse il fratello maggiore avrà cercato di mendicare nelle vie di quartiere, di portare a casa qualche spicciolo?
Ben duro mendicare, in una folla che fatica a sfamare i propri figli. Comunque quel fratello è poi tornato, perché sono stati trovati tutti assieme, stretti l’uno all’altro. Quel grappolo di bambini abbandonati e inerti sono un drammatico segnale di ciò che sarà l’inverno in una Kabul devastata. Almeno 5 milioni di bambini afghani, secondo le Agenzie internazionali, sono a rischio carestia. Dalle foto scattate negli ospedali la vedi già, sulle facce dei piccoli malati, l’ombra della carestia: hanno visi scavati e occhiaie profonde in cui spiccano, più grandi, gli occhi scuri, quasi meravigliati – loro, innocenti – di tanta fame e sofferenza. Agnelli, docili al loro destino. Ma questa 'piccola' strage senza bombe in una stanza dimenticata della capitale afghana segnala un’altra cosa, grave quanto la fame. C’era una casa piena di bambini affamati, possibile non abbiano bussato alle porte dei vicini? Possibile che non una donna, non un padre si sia accorto di quegli orfani?
E nessun fratello, zio, nonno, è andato a cercare i nipoti? O forse c’era da aver paura ad avvicinarsi a quella casa, c’era da temere conseguenze? Le testimonianze, incerte, raccontano che per qualche tempo vicini pietosi se ne sono occupati, poi la situazione è diventata insostenibile per tutti e anche la pietà è diventata introvabile come il pane da dividere. Otto bambini lasciati morire di fame nel mezzo di una città: non pare il segno di una trama sociale lacerata, di un vivere insieme ridotto dalla paura e dalla violenza a uno stato primitivo, in cui si bada alla propria tribù e a nient’altro? Questo può fare una guerra civile, se nel rancore e nella diffidenza dissolve legami di solidarietà che crederemmo 'naturali': disfa, avvelena l’humus della umana convivenza. (Perfino, afferma un servizio della Bbc, c’è chi vende una figlia bambina per 500 euro: per sfamare almeno gli altri). Se è possibile che quegli otto siano stati lasciare morire di stenti mentre la città attorno viveva la sua pure povera vita, lo sfacelo a Kabul è peggio di ciò che vediamo sul web: è un male che cambia gli sguardi, e indurisce, e dispera.
Da noi, intanto, approssimandosi novembre si comincia a sentire un lontano odore di Natale. Ai mercati rionali vendono già le tovaglie rosse e oro, ai banchi dei fiori brillano le bacche di agrifoglio. E noi timidamente ci rallegriamo che Natale torni, dopo questi due dolorosi anni. In questa promessa lieta, e nella folla dei centri commerciali traboccanti di cibo e merci, ci restino però in mente quei fratelli di Kabul, che aspettavano. Immaginatevi: 'Hai sentito? Dei passi, forse è la mamma'. Ma i passi sempre si allontanavano, e nessuno bussava alla porta. Finché, spenti i pianti dei piccoli, soltanto silenzio. Pensiamoci, nei giorni delle feste che verranno. Un dono anche per i bambini di Kabul - che, dicono le infermiere in ospedale, raccolgono e mangiano, come passeri, le briciole del pane.