Conflitti. La “guerra aperta” in Medio Oriente è una strada senza ritorno
Mercoledì, più o meno nelle stesse ore, la stampa internazionale ha registrato due dichiarazioni: da un lato Nabih Berri, presidente sciita del Parlamento libanese, ha parlato di “ore decisive” per evitare una guerra aperta tra Hezbollah e Israele; dall’altro i comandi militari israeliani hanno spostato verso Nord due brigate di riservisti, dichiarando di voler essere pronti a “entrare in Libano”. Posizioni che non possono sorprendere. Il Libano è da anni sull’orlo del collasso, un Paese di 6 milioni di abitanti che quasi per miracolo non è crollato sotto il peso di 300mila rifugiati palestinesi, un milione e mezzo di siriani e i quasi 100mila profughi già provocati dai bombardamenti di Israele nel Sud. Israele, per parte sua, dopo aver decimato i comandi di Hezbollah, non può mollare la presa adesso, mentre esibisce tra l’altro una schiacciante superiorità militare, tecnologica e di intelligence.
Per quanto logiche e naturali, però, le prese di posizione sull’uno e sull’altro lato dimostrano che sulla prospettiva di un’invasione israeliana del Libano c’è un dibattito in corso che supera Beirut e Gerusalemme e coinvolge in primo luogo Washington. Non è certo un caso se la Casa Bianca, nei giorni scorsi, ha ritirato dal Mediterraneo la portaerei “Gerald Ford” e le portaelicotteri “Bataan” e “Hall”. È come dire a Benjamin Netanyahu: se invaderai il Libano dovrai farlo senza di noi. Le ragioni di Joe Biden e Kamala Harris sono chiare. Nella fase cruciale della campagna elettorale, e con Donald Trump che li accusa di essersi impantanati in Ucraina, coinvolgere gli Usa in un’altra guerra dalle dimensioni e dalle conseguenze imprevedibili potrebbe avere effetti pesanti sul voto dei giovani e delle minoranze.
È vero però che la moral suasion della Casa Bianca, energica più a parole che nei fatti, finora non ha molto impressionato Netanyahu. Un esempio: Biden era contrario all’occupazione della Striscia di Gaza, che gli israeliani hanno puntualmente realizzato. Dunque il premier israeliano e il suo Governo potrebbero essere tentati di mettere gli Usa di fronte al fatto compiuto, nella convinzione che in ogni caso la dirigenza americana si sentirebbe costretta a intervenire per sostenere lo Stato ebraico. A maggior ragione se un’invasione del Libano spingesse anche l’Iran a intervenire. Netanyahu, dopo il 7 ottobre del 2023 e le stragi dei terroristi di Hamas, ha comunque deciso di imboccare una strada che, politicamente e quindi militarmente, non prevede ritorno ma solo la vittoria a qualunque costo. Il suo risiko, dunque, potrebbe prevedere questo ragionamento: invadere il Libano per provocare la reazione dell’Iran e di conseguenza l’intervento degli Usa, tentando così di chiudere la partita con gli ayatollah, Hamas e Hezbollah nello stesso tempo.
Un’esagerazione? Certo. Ma anche i 1.700 morti del 7 ottobre 2023 lo sono. Anche 42mila morti di Gaza lo sono, come i mille della Cisgiordania o i 600 in un giorno del Libano. Anche i soldati israeliani caduti con ogni probabilità lo sono, se non fosse che il Governo di Israele li nasconde con la censura militare e il blocco di ogni forma di libera informazione dal fronte. Su che cosa dobbiamo sperare, dunque, perché non deflagri una guerra aperta disastrosa per i civili, per i Paesi coinvolti e per le sorti del Medio Oriente? A questo punto, oltre che sulla fragile buona volontà dei politici, su una lezione che arriva proprio dalla superiorità di Israele. Un’invasione Israele l’ha già condotta, è quella della Striscia di Gaza. E non pare un gran successo: se non fosse per il totale controllo dei cieli e i bombardamenti a tappeto (per favore, non definiamoli “attacchi mirati”) parleremmo forse di fallimento, perché Hamas non è stato sradicato, il controllo del territorio è instabile e non vi è alcuna prospettiva credibile per il futuro della Striscia.
Mentre invece Israele continua a mietere successi laddove è davvero forte: con la capacità di penetrazione nei ranghi nemici dei servizi segreti e con l’uso della tecnologia. L’uccisione in piena Teheran del leader di Hamas Ismail Haniyeh. La distruzione in Siria di una fabbrica segreta di missili costruita dagli iraniani. L’esplosione dei cercapersone e delle radio in Libano. Queste le azioni che hanno davvero disorientato e paralizzato il nemico. Possiamo quindi immaginare che Netanyahu, di fronte alla prospettiva di perdere uomini e mezzi in un’invasione, preferisca affidarsi alle astuzie del Mossad. Ma è una speranza sottile, e di certo poco consolante.