Giustizia è una parola che provoca pensieri ed emozioni diverse. La prima immagine, la più forte forse, è un’invocazione dolorosa: dov’è la giustizia? Ciò che sta sotto gli occhi, in quotidiana vicenda, da noi e nel mondo è in gran parte una saga del male. Abramo cercò a stento dieci giusti nell’antica metropoli, Dante non ne trovò che un paio («giusti son duo…») nel tempo di mezzo, oggi c’è chi racconta «l’ultimo dei giusti». Questa coscienza della condizione umana va tenuta presente, mentre discorriamo del senso di insicurezza e della sfida criminale di casa nostra; una atavica e costante minaccia, contro la quale non pareggia il conto l’onestà dei molti; né il conto della virtù alquanto incerta dei reggitori, dei timonieri, dei leader e degli ottimati. Aver chiare le idee sul bene e sul male è l’abbicì della giustizia, ci fa capire dov’è il guasto e dove va messo il rimedio.Una seconda immagine di giustizia, più vicina alla concretezza del da farsi, è quella della funzione dedicata a separare la ragione dal torto, l’innocenza dalla colpa. Funzione escogitata fin dai primi abbozzi del villaggio sociale, oggi svolta in sovrana indipendenza dagli altri poteri, in modo irrinunciabile. Stiamo parlando dei giudici e dei processi.Ma i processi in Italia segnano stabilmente l’ora del disastro, quasi in un sisma permanente. E sui giudici l’opinione pubblica recente sta facendo crollare non dico la simpatia, che non occorre, ma il rispetto. Non è il disamore il problema, è la disistima programmata. Penso ora agli umori aspri che covano dentro certi propositi di riforma dell’ordinamento, a rimettere in sesto – o a mettere in riga? – un "potere" guardato con occhio di sospetto; penso alla ritornante idea della separazione fra giudici e pm (in sé per nulla eversiva, ma certo bisognosa di maturazione e di condivisione). E dico che ce ne vuole per confondere la figura del magistrato inquirente simile al giudice con quella del mezzo giudice mezzo sbirro. Forse si allaccia anche a questa temuta vigilia la disaffezione al ruolo delle procure, che vengono ora disertate. La terza immagine della giustizia è il servizio-giustizia, compito di governo. Un servizio che possiamo paragonare agli altri, al servizio sanitario e agli ospedali, al funzionamento delle poste e delle ferrovie. È a questo punto che scoppia lo scandalo delle «sedi disagiate», dei palazzi di giustizia dove gli organici sono scoperti e vuoti, alla stregua di ospedali senza medici o di stazioni senza treni. Sono disagiate perché immerse, in gran parte, in territori funestati da uno sfondo criminale che sembra indomabile. È l’impianto di fondo che chiede intervento. Io so di un ragazzo giudice santo che è stato laggiù, Rosario Livatino. Ma chi può se ne va, quasi nessuno ci arriva poi come volontario. Ci si mandano d’ufficio, allora, le reclute. Ci si mandano i "giudici ragazzini", i vincitori dell’ultimo concorso che stanno nella graduatoria a partire dal basso.
Sindacally correct? Ma andiamo, è un tragico scarto rispetto alle esigenze di professionalità matura che occorrono. Sappiamo bene che spostare a forza i giudici maturi dalle sedi diverse non si può, la Costituzione impedisce di muoverli. Forse occorrerebbero incentivi adeguati, sufficienti a bilanciare il disagio dei volontari, prima di arruolare fra i ragazzi gli obbligati all’eroismo. Noi siamo contrari al modo con cui s’è rabberciato il disagio. E però adesso, se ha da essere in questo improvvido modo, sia appello e speranza in loro. Forse la stagione degli eroi necessari gettati ragazzi nel deserto dei Tartari a cagione delle nostre insipienze, è quella che viviamo e che chiede, contro ogni speranza, scelte vocazionali accettate. Questo allora mi pare: il "resto di noi" che diciamo di noi, è il meglio di noi.