Ci risiamo, nuovi aumenti delle accise sulla benzina e facoltà di incrementare dello 0,8% la Tasi. Il tutto condito con la solita polemica sull’applicazione dell’imposta sugli immobili della Chiesa e delle altre religioni. Nulla di nuovo, dunque. D’altronde si sa, bisogna fare i compiti a casa poiché il semestre europeo è vicino e occorre dimostrare alla Ue di essere credibili. Solo così, ci ha spiegato il premier, potremo nutrire la speranza di essere autorizzati a sforare il vincolo del 3% sul Pil. Sicché, si tratta di una battaglia persa in partenza, destinata a infrangersi lungo le scogliere della costituzione economica della Ue e a vanificare i nostri sforzi sul fronte fiscale.È indubbio che la politica economica europea debba cambiare. Per farlo, però, a nostro giudizio, non dovremmo rinnegarne la matrice, quanto piuttosto portare a pieno compimento quell’ideale ispiratore che ha sin qui guidato il processo di integrazione; in breve, quell’economia sociale di mercato di cui, a oggi, si è visto più il lato del rigore che quello della tutela dei diritti sociali. È proprio su questo terreno che il governo dovrebbe sfidare le istituzioni europee proponendo – a fronte del rispetto degli impegni sulla riduzione del debito – un "Piano" straordinario di "interventi conformi", gestiti direttamente dalla Bei (Banca europea degli investimenti) sotto la supervisione della Commissione e del nostro ministero dello Sviluppo economico, in grado di fare del nostro Paese, anziché un outlet permanente, una vera e propria piattaforma delle opportunità. Sia detto per inciso che, per quanto i padri dell’economia sociale di mercato – pensiamo ad Alfred Müller-Armack e Wilhelm Röpke in Germania, ma anche a Luigi Einaudi e Luigi Sturzo in Italia – fuggissero dalla tentazione di offrirne un’interpretazione dogmatica, riconoscevano che esiste un nucleo teorico che svolge la funzione di perno e intorno al quale s’irradiano le possibili interpretazioni e le diverse ricette di politica economica. In pratica, l’economia sociale di mercato disegna una politica economica improntata alla libertà integrale e indivisibile, essa è fedele ai principi del liberalismo politico, sposa il principio della libera concorrenza, non teorizza alcuna limitazione delle garanzie sociali a favore della libertà e viceversa. Tale modello economico favorisce la crescita, dalla quale scaturiscono le prestazioni sociali e tutte le possibili garanzie: i salari, le pensioni, le rendite, nonché la formazione del capitale presso la più ampia base possibile di popolazione. Tornando alla nostra proposta, si tratterebbe di un "Piano" di investimenti in partenariato pubblico-privato attraverso cui realizzare quegli interventi strutturali (nel settore delle infrastrutture e dei trasporti, delle reti digitali, della scuola e dell’università, della valorizzazione beni culturali, dell’energia e della ricerca) necessari alla crescita e, nello stesso tempo, supportare il nostro sistema industriale nel processo di riallineamento competitivo mediante l’aumento della produttività del lavoro e la riconversione verso settori a maggiore valore aggiunto.Oltre al rispetto degli impegni sul fronte del debito, a fronte di tali investimenti pubblico-privati, l’Italia dovrebbe però realizzare riforme tese a una completa apertura concorrenziale del mercato interno, a una semplificazione delle norme e una riduzione delle garanzie poste a tutela degli interessi legittimi nei settori interessati dal "Piano", nonché a concedere sgravi fiscali, sotto forma di "buoni d’imposta", in favore delle nuove iniziative sviluppate nell’ambito del "Piano". Una tale politica economica – sebbene transitoria e volta a sostenere il riallineamento competitivo del Paese – avrebbe il pregio, da un lato, di completare il processo di completa apertura del mercato interno e, dall’altro, proprio grazie all’esistenza del mercato unico europeo, di generare benefici e opportunità di crescita per l’intero sistema economico della Ue. Infine – poiché accompagnerebbe il processo di revisione della spesa pubblica, contribuendo a ridefinire il peso delle componenti del reddito nazionale – permetterebbe all’Italia di realizzare le tanto invocate riforme strutturali senza mettere a rischio i diritti sociali, abbandonando finalmente il pressoché esclusivo e ormai insostenibile binomio diritto sociale-prestazione pubblica, a fronte di un più moderno sistema solidale e sussidiario, altamente inclusivo e partecipato.