Un feto di tredici settimane è un essere vivente ma non è un essere umano, ha detto il ministro all’Uguaglianza del governo Zapatero, Bibiana Aido. Ne è seguito un putiferio, e il giovane ministro ha ritenuto di dover meglio chiarire il suo pensiero: «Non c’è prova scientifica per dire che il feto è un essere umano, né che non lo è». Tanta cautela nel riconoscere l’umanità del nascituro proviene da un Manifesto recentemente firmato da illustri scienziati spagnoli, dove si afferma che «il momento in cui si può considerare un essere 'umano' non può essere stabilito con criteri scientifici», e che tale giudizio rientrerebbe «nell’ambito delle credenze individuali, filosofiche o religiose ». Dunque, quell’essere pure dotato, come mostra ogni ecografia, di mani, cuore e cervello, non è umano. O almeno, la scienza non lo può certificare come tale. Cosa occorrerà perché il nascituro diventi un uomo? Sarà uomo quando, a sette o otto mesi di gravidanza, è potenzialmente capace di vivere autonomamente? O solo col primo respiro si viene promossi uomini? Quale è il discrimine stabilito da una simile 'scienza' per riconoscere un uomo, per farlo uscire dall’oscuro nulla, dal limbo informe delle creature in fieri? Certo, un pensiero simile è funzionale alla riforma che intende allargare il diritto di aborto in Spagna. Se si insegna alle sedicenni che ciò che potranno liberamente cancellare non è nemmeno un uomo, si eliminano «vecchie» questioni etiche e un sacco di problemi. Ma rende inquieti una scienza, e un potere con esso allineato, capaci di negare la più chiara evidenza. Ogni donna, davanti all’immagine della creatura di tre mesi che aspetta, anche se non la vuole mettere al mondo non può non riconoscerne le fattezze umane, non può ignorare che quello è un figlio. È un’umana evidenza: ha gli occhi, le mani, la testa, il cuore batte. Mettete davanti a un’ecografia un bambino: riconoscerà immediatamente, pure in quel disegno di ombre, un suo simile. E invece c’è una scienza che si è smarrita in se stessa, tanto da non riconoscere in ciò che vede un bambino. Una scienza che balbetta che solo idee «filosofiche o religiose» chiamano uomo un feto: dove sono, avanti, le evidenze scientifiche? (Ma quel disegno intrinsecamente ordinato e perfetto, teso a un compimento che aveva scritto in sé dal principio, procede metodico e ostinato, nel ventre delle madri, senza bisogno di alcun timbro di professori). Un uomo che non riconosce più se stesso, questo produce una scienza accecata dalla ideologia. Una scienza al docile servizio del potere. Perché nel più liberale e liberato dei Paesi, dove l’aborto sia possibile senza condizioni, dove basti una pillola, sussiste ancora, in non poche coscienze, un confuso dolore, un non detto malessere per quei figli mai nati. E benché, certo, tutto sia perfettamente legale, è un’ombra, un oscuro disagio la memoria di quelle centinaia di migliaia di figli, fratelli, nipoti mai nati. Di uomini rifiutati, come clandestini inappellabilmente respinti oltre un invalicabile muro. Uomini? Mah, adagio. A tredici settimane sono veramente uomini? Dov’è la prova? Forse sono un qualcosa, sì, di vivente, ma certo non sono come noi. Sproporzionati, tanti drammi personali e tante battaglie etiche, per quei princìpi immaturi. Abbozzi, in fondo, lunghi pochi centimetri. Sì, hanno gli occhi, le mani, ma non parlano, e soprattutto non si vedono. Con simili caratteristiche, non si può onestamente dirli uomini. Cosa, allora? Soltanto cellule, solo organismi cocciutamente proliferanti – agli occhi di uomini educati a mentire tanto, da non riconoscere più se stessi.