Se lungo la linea elettrica che alimenta una lampadina ci sono sei interruttori, per tenerla accesa devono lasciar passare tutti la corrente; mentre basta azionarne uno solo, uno qualunque e la lampada si spegne. Se una legge è denunciata perché sta accesa in violazione di sei norme costituzionali che la falciano, basta accertare il contrasto con una sola di quelle, per spegnere (abrogare) la legge. Contro l’art. 4 della legge 40/2004, cioè contro il divieto della fecondazione eterologa, tre tribunali italiani hanno sollevato questione di legittimità per presunta violazione di sei regole: un gruppo di cinque norme "nostre", pescate all’interno della Costituzione, agli art. 2, 3, 29, 31, 32 più - per ultima - una regola della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (art. 8 e 14), che era servita a una sezione della Corte di Strasburgo per condannare l’Austria a causa della sua particolare legge sul divieto di eterologa.Avevano ragionato così: se l’art. 117 della nostra Costituzione assoggetta la potestà legislativa ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», tenendo sotto gli occhi quella sentenza di Strasburgo c’era da dubitare che nostra legge 40 fosse rispettosa dei vincoli europei. Ma frattanto proprio quella sentenza è stata riformata dalla Grande Chambre della stessa Corte europea, che ne ha capovolto il verdetto. E dunque il ragionamento costruito su quella prima, ribaltata, decisione non regge più. Se c’è un problema, va ripensato daccapo, proprio alla luce di quanto il supremo giudice europeo, in veste plenaria e definitiva, ha detto interpretando l’ordinamento europeo, e di cui il giudice dello Stato membro deve prendere corretta cognizione. È questo il senso - mi pare evidente - della restituzione degli atti ai giudici remittenti, da parte della nostra Corte Costituzionale. E sono molti i commentatori che, più o meno contenti, l’hanno capito.Ma c’è un contenuto implicito in questa restituzione, che è dedicata al solo sesto "interruttore" possibile: ed è l’esclusione dei primi cinque. Perché se anche uno solo degli articoli "nostri" richiamati - 2, 3, 29, 31, 32 - fosse stato ritenuto violato, la Corte avrebbe dichiarato incostituzionale la legge denunciata, senza perder tempo a rispedire al mittente la questione "europea", superflua. È dunque improprio dire e scrivere che la Consulta «non ha deciso», o peggio annotare che «non ha dichiarato che la legge 40 è legittima» (una pronuncia di tal fatta non può nemmeno esistere). Qualcosa ha deciso, invece. Per implicito ma con estrema chiarezza, ha deciso che la legge non si spegne passando per gli interruttori 2, 3, 29, 31, 32, non confligge con essi. Per il nostro ordinamento interno va bene così com’è. Resta da vedere se confligge davvero con i vincoli d’Europa, ma per fondare in modo appropriato quel discorso, - dice la Consulta - i giudici remittenti devono andarsi a leggere la sentenza della Grande Chambre e ragionarci su. Anche questo rimando ai giudici ha una ragione tecnica, è un "atto dovuto". La Consulta non entra e non può entrare da sé, a priori, a vagliare un problema che risulta ora non più impostato in modo congruo (perché i giudici dei tre tribunali italiani hanno chiamato a supporto una sentenza europea cancellata, ribaltata), ma ha bisogno, per occuparsene, che prima sia appunto impostato bene, cioè riveduto alla luce di quanto deciso in Europa in seconda e ultima istanza. E siccome quella decisione (del 3 novembre 2011) ci sta sotto gli occhi, una lettura intellettualmente onesta, per quello che dice e non per quello che piace o dispiace o che par giusto o sbagliato al lettore, dovrebbe por fine al problema.Interpretare la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo spetta alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, e non ad altri. A noi la rilettura riporta alla mente, piuttosto, fra i "diritti umani" su cui si pone tanta giusta enfasi, qualcosa di cui molti commentatori non sembrano accorgersi, i diritti umani della persona chiamata alla vita, l’identità che le spetta come "uno di noi".