Yara: crudeltà, parole di padre. Una luce nell'abisso
Giuseppe Anzanisabato 21 giugno 2014
Rintracciato, acciuffato, inchiodato dal responso della scienza secondo gli addetti, «caso chiuso» per i comunicatori di delitti e di caccia ai delitti, che cos’altro si attende a insaponare la corda, nella emozione collettiva già esplosa in quelle grida di odio al momento dell’arresto? Il mostro è preso e legato, e quando sarà distrutto noi saremo salvi dall’incubo del mostruoso che abita con noi. Così sembra dire il furore che rotola sulla vicenda di Yara in questi giorni convulsi. E il sogno di giustizia che ogni volta ripassa in memoria la fine di quel fiore dolcissimo, la feroce distruzione del giusto, ammicca ora forse al pensiero della morte che ripaga la morte, al dolore e alla distruzione che pareggia la distruzione e il dolore.Non basta, non serve. Vedo dibattersi nelle immagini delle crudeltà sofferte dalla giovane Yara, che ci strappano il cuore, come guizzi di fiamma i fantasmi di una rivincita che celebra per lode il suo trionfo. Ne abbiamo ricevuto un clamore pubblicitario, un arresto che forse era meglio tener riservato - se non altro per fini istruttori - fino a convalida da parte di un giudice (che invece convalidato non l’ha). E poi gli annunci ministeriali, e poi le conferenze stampa illustrative, e poi le dismisure di vanti e di polemiche su chiassi e silenzi. E su tutto, questa specie di bandiera vittoriosa sul mistero indagato e risolto, le cifre e i timbri di una missione finalmente compiuta, e il raggiunto inconfutabile traguardo, e chi avesse ancora dubbi e non salta stupido è. Ma non è nei processi d’assise che si possono fare salti. I processi non sono lo stupido rito di chi mette al vaglio di ogni possibile ragionevole dubbio ciò che i dati istruttori (non la pubblica opinione) gli abbiano proposto. I processi non si fanno per giornali o per piazze, per emozioni o per opinioni d’esperti. In un processo umano, la feritoia dello sguardo iniziale d’accusa diviene finestra su smisurati orizzonti. Prima dell’aula e fuori dall’aula, il dolore del delitto, chiunque l’abbia commesso, rimbalza come un’eco impazzita fra gli specchi dell’umana esistenza, e ne devasta i recessi innocenti. Oggi, ad esempio, dentro la casa dell’uomo incolpato della morte di Yara (e ne nessuno ne può anticipare il verdetto) vi sono volti umani sui quali la curiosità e la pubblicità (su cui persino il Garante della Privacy ha fatto gride, con il consueto senso d’impotenza) ha rovesciato la prematura gogna di tradimenti e impurezze negate. Non ci appartiene la cronaca-spelonca dei volti stupefatti di figli d’identità stravolta, dentro le nuove storie asserite e negate. Sono voci umane che gridano il loro segreto dolore sopra il pentagramma meccanico che gli si assegna per vero. Ci danno angoscia anch’esse. Hanno diritto al riserbo e al rispetto. Il male non è umano, è disumano. Se a rintuzzare il male ci basterà il male non scamperemo dal male. Il disumano, appunto: scongiurarlo in giustizia sarà il primo minimo. Ma poi l’umano busserà ancora. Ci vorrà un’altra impossibile parola, o un’altra impossibile fede, di fronte all’interpello del male. Chiunque l’abbia commesso, accanto a quelli che nella storia umana ne hanno segnato la traccia e l’insaziato dolente interpello, c’è pur qualcuno che ancora l’ha detta, fra noi, in incredibile grazia, la parola che salva. L’ha detta il papà di Yara: «In questi giorni dobbiamo pensare solo a pregare per la famiglia Bossetti, perché stanno soffrendo più di noi». Disumano, sovrumano? Ci sono enigmi e abissi che stanno tesi sui nostri inferni terrestri, e sono pianto e speranza in lotta di morte e di vita. La speranza, infine, è la vita che sta in questa fede.