Sanità. La sfida della medicina spaziale per farci stare meglio sulla Terra
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La Nasa ci crede: entro il 2040 l’essere umano metterà piede su Marte. Il magnate Elon Musk ha convinzioni addirittura più granitiche e, con la sua compagnia privata SpaceX, vuole battere l’Agenzia spaziale americana di almeno un decennio, per poi creare insediamenti stabili «con un milione di persone entro il 2050». Quel che è certo è che, anche se meno consapevolmente rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, siamo entrati in una nuova era spaziale, che sta per celebrare l’esplosione della “New Space Economy”, fatta di turismo spaziale, fabbriche in orbita, avamposti lunari e attività di estrazione mineraria sugli asteroidi.
A differenza di 60 o 70 anni fa, però, il fascino dell’avventura lascia il campo a una temuta «necessità». Sentite Marianne Legato, medico e capo della “Foundation for Gender-Specific Medicine” di New York: «La continuità della nostra esistenza sulla Terra ha davanti a sé un futuro incerto. Il cambiamento climatico, l’esaurimento di importanti materie prime, la collisione con altri corpi celesti come gli asteroidi, l’invasione di agenti infettivi per i quali non abbiamo difesa e, in ultima analisi, il collasso del Sole, sono scenari possibili che rendono imperativo esplorare mondi alternativi su cui sopravvivere». Uno sforzo che Legato paragona a «un vero e proprio Terzo Rinascimento». Prepararsi a questo “cambiamento” pone enormi questioni medico-scientifiche, etiche e politiche: dalla governance della raccolta e distribuzione delle risorse di nuovi mondi, all’alterazione del genoma umano per migliorare l’idoneità ai voli spaziali, fino alla tutela dell’integrità degli ambienti dei pianeti in cui stabilire civiltà permanenti. Nodi che interrogano il convegno “Costruire una civiltà nello spazio”, di cui è presidente la stessa Legato, in corso fino a domani a Firenze, organizzato dalla Fondazione internazionale Menarini, con Nasa, Sovaris Aerospace e Foundation for Gender-Specific Medicine, cui confluiscono medici, psicologi, biologi, che si confrontano con astronauti (fra i quali l’italiano Roberto Vittori), ingegneri, astronomi, storici, fisici ed esperti di etica.
Ora, alla base di questa rinnovata corsa allo spazio c’è la capacità dell’uomo di adattarsi ad una vita extraterrestre. Perché optare per un cambio di residenza al di fuori del pianeta che abitiamo, significherebbe affrontare uno stress test che metterebbe alla prova ogni cellula del nostro organismo. Di questo si occupa la medicina spaziale, che in Italia ebbe autorevoli esponenti, sin dagli inizi. Sin da quando, cioè, spiega ad Avvenire il generale Pietro Perelli, capo del Corpo sanitario dell’Aeronautica militare, «il professor Angelo Mosso, alla cui memoria è intitolato l’Istituto di Medicina aerospaziale di Milano, diede vita a studi e ricerche sulla fisiopatologia d’alta montagna. Ma il vero impulso che portò alla creazione dei primi “gabinetti per le ricerche psicofisiologiche sull’aviazione” fu dato dalle attività scientifiche del medico padre Agostino Gemelli, che pose le basi di quello che oggi è lo stretto rapporto di fiducia fra medico e pilota». Erano gli anni della cortina di ferro quelli in cui iniziò ad operare l’Associazione italiana di medicina aeronautica (Aima), che nasceva il 30 maggio 1952. Sigla che si completò con la connotazione “spaziale” nel 1963.
Da allora questa branca medica ha sperimentato, testato, approvato soluzioni terapeutiche sempre più affinate per gli astronauti. Arrivando a stabilire che vivere qualche mese nello spazio e affrontare la microgravità e lo stress ossidativo (vale a dire un aumento dei radicali liberi a un livello tale da compromettere la capacità anti-ossidativa della cellula) accelera l’invecchiamento e determina cambiamenti che di solito si verificano in 10-20 anni di vita sulla Terra, con effetti deleteri su Dna, cuore, metabolismo, occhi. Ma dai disturbi che colpiscono gli astronauti al ritorno dallo spazio, arrivano pure indicazioni per prevenire e curare malattie dell’invecchiamento sulla Terra. «La microgravità sperimentata a bordo, impone al corpo umano effetti negativi che possono essere paragonati a un processo di invecchiamento anticipato e accelerato – afferma Roberto Vittori –. Se ciò può sembrare dannoso, in realtà rappresenta un’opportunità unica per la scienza. Infatti, la simulazione di invecchiamento rapido può essere invertita e analizzata in profondità. Inoltre, in microgravità il cervello deve adattare i suoi meccanismi di elaborazione delle informazioni, offrendo preziose tracce sulle capacità cognitive umane e aprendo la strada a prossime generazioni di esploratori anche civili».
Insomma, la buona notizia, fanno sapere da Firenze, è che la medicina spaziale «ci sta fornendo strumenti di precisione per contrastare l’inarrestabile trascorrere degli anni, attraverso personalizzazione di farmaci, attività fisica e dieta in base al profilo molecolare del singolo individuo». Si vanno studiando e affinando programmi di intelligenza artificiale capaci di diagnosticare patologie prima ancora della comparsa dei sintomi, biopsie liquide che con un prelievo di sangue riconoscono le “spie” di diversi tipi di tumore, e persino “gemelli digitali” degli astronauti, modelli virtuali, cioè, che, simulando la fisiologia dell’individuo, prevedono l’evoluzione delle malattie. Fino ai più avanzati sistemi di telemedicina, e alle nuove frontiere di farmacogenomica. Tutte innovazioni studiate per gli astronauti, ma che potranno aiutare anche noi “terrestri”.
La medicina spaziale è “giovane” «ma siamo anni luce più avanti rispetto a quella terrestre di precisione», sottolinea Legato. «Vogliamo portare alla nostra “famiglia terrestre” i principi degli screening e degli interventi medici impiegati negli ultimi 65 anni per gli astronauti, migliorando esponenzialmente la nostra salute, le nostre performance e la longevità». Con un contributo tutt’altro che marginale della scienza made in Italy. Di ieri e di oggi, precisa il generale Perelli, ricordando la presenza di «un ufficiale medico del Corpo sanitario aeronautico selezionato quale “Crew Interface Coordinator” nella missione dello Space Shuttle del 1996» e, in tempi più recenti, «i tre nostri ufficiali medici che hanno conseguito la qualifica di “Space Flight Surgeon” allo Yuri Gagarin Cosmonaut Training Center di Star City, nei pressi di Mosca». A coronamento di questo fervore scientifico, aggiunge l’alto ufficiale, «lo scorso 29 giugno è partita dallo Spaceport America, in New Mexico (Usa), la missione “Virtute 1” con l’operatore Virgin Galactic, la prima al mondo con finalità di ricerca scientifica, che con l’utilizzo dello spazioplano Spaceship Two, ha effettuato, con a bordo un equipaggio italiano, il primo volo umano suborbitale». Nell’occasione, un ufficiale medico del Corpo sanitario dell’Aeronautica, «ha potuto condurre anche su sé stesso studi e sperimentazioni in più ambiti della medicina».
Ma c’è tanta Italia anche nella Stazione spaziale internazionale (Iss), dove è stato da poco avviato l’esperimento “ZePrion” che, nato da una collaborazione internazionale di diversi istituti con l’azienda israeliana SpacePharma, sfrutta le condizioni di microgravità in orbita (nei laboratori terrestri si genererebbero troppe “interferenze”) per validare un protocollo all’avanguardia – legato all’induzione della distruzione di alcune proteine nelle cellule – per creare farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo, ora incurabili. L’Italia ha un ruolo fondamentale in questa ricerca che coinvolge l’Università di Milano-Bicocca, quella di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto nazionale di Fisica nucleare e l’Istituto di Biologia e biotecnologia agraria del Cnr. E si parla italiano anche nella missione Nasa “Crew-7”, arrivata sulla Iss il 27 agosto, che ha affidato all’Università di Trieste il progetto “Nimas”, che valuterà se la stimolazione elettrica neuromuscolare possa essere uno strumento utile per adattare il corpo umano nello spazio. A quanto pare, un’esigenza non troppo remota.