Opinioni

Riflessione. La visita del Papa sui luoghi del terremoto Una foto e una scelta che valgono un mondo

Angelo Scelzo sabato 8 ottobre 2016
Il Papa, di spalle, solo e sullo sfondo le macerie di Amatrice: se una foto è anche un racconto quella di Francesco nei paesi terremotati parla e narra fino ai dettagli della natura e dello stile di un pontificato. La forza di pietre ridotte in polvere è grande, ed è per questo che dalle rovine di Amatrice lo sguardo non fa fatica ad allargarsi al mondo, e ad altre macerie non di pietra, ma non meno rovinose. Le guerre, i morti, gli esodi forzati da continente a continente, la schiavitù, la fame e tutti gli orrori disseminati da ingiustizie e sopraffazioni dell’uomo sull’uomo. E diventa naturale pensare che a questo scenario più ampio Francesco accompagni, con gli occhi e con il cuore, la sua chiesa in uscita: quella che ha la particolarità di trovarsi sempre più a suo agio proprio laddove è massimo, invece, il disagio. È il segno di un cammino alla rovescia, della scelta controcorrente di voltare le spalle e di girarsi dall’altra parte. Ma dalla parte giusta, in cerca di chi è difficile da vedere, o soltanto da scorgere. Papa Francesco ha ormai insediato la Chiesa su queste frontiere di “retroguardia” dalle quali la vista verso gli “avamposti” si fa più ampia e più libera. Amatrice, come ogni altro Paese colpito dal terremoto, è stata così il nuovo capezzale sul quale si è inchinata la sua chiesa da campo; un’altra ferita nel corpo dilaniato di una terra che non trova pace e che ha invece bisogno di chi l’aiuti a trovarla a ogni costo. Davanti a un panorama di macerie, l’ansia tutta francescana di «riparare la casa» – l’uscio di Amatrice, la porta del mondo – si è manifestata in tutta la sua struggente intensità. Francesco, solo, di spalle, vestito della sua semplicità, era la Chiesa che apriva il cuore e si rimboccava le maniche, pronta a una nuova prova, ma già in campo su tutti i fronti e sempre dalla parte dall’uomo, della sua dignità. Dal Caucaso al Reatino c’è stato lo spazio di appena 48 ore, ma ancora più esile è stato il divario di significato tra i due eventi: la Chiesa di Francesco non solo visita ma accorre, e non lascia suonare invano le tante sirene di allarme che si levano da ogni parte nel mondo. Per chi sa tendere le orecchie e aprire lo sguardo, la terra non è altro che un grande villaggio: non quello omologato e fatto simile a un mercato secondo le leggi di una globalizzazione senz’anima, ma una «casa comune» che ha per norma fondamentale la solidarietà e la condivisione.  Anche di fronte alle macerie di Amatrice, Francesco ha mostrato come una Chiesa che accorre è tutt’altro che un mero organismo da «pronto soccorso». Essa non invade campi, né ad Amatrice («Non sono venuto prima per non dare fastidio») né in ogni altra parte nel mondo. E non ha bisogno di piantare bandiere. La sua casa è l’uomo e dove egli vive. Il Reatino vale il Caucaso, e Lesbo vale Cuba, l’Africa, l’America Latina. Una globalizzazione anche, ma radicalmente diversa. E ancora alla rovescia. Perché la chiesa di papa Francesco, nell’era di internet e nel profluvio delle connessioni, è quella che ha preso a bussare a ogni porta.