Uno dei padri della prima legge sull’adozione in Italia, che risale a quarantaquattro anni fa, era solito dire che accoglienza e gratuità non si imparano né si insegnano ai figli. Si possono solo vivere. Devono pensarla così anche le famiglie – ancora poche, vista la novità della proposta – che hanno deciso di aprire la loro casa e il loro cuore a una mamma in difficoltà, spesso minorenne, senza familiari e con una storia già pesante alle spalle, e al figlio, prendendoli entrambi in affido. Ospitare in casa un bimbo molto piccolo, ben sapendo che presto (al massimo nel giro di sei mesi, un anno) se ne andrà, e non per questo lesinargli cure, attenzioni e amore, è però l’aspetto meno complicato in questa esperienza. Dai racconti delle coppie intervistate in uno studio appena pubblicato risulta evidente che il momento del distacco dal bambino non è facile per nessuno. Né per la coppia di genitori affidatari ai quali ha rivolto magari le sue prime parole, né per i loro figli che in tutti i casi esaminati si sentono coinvolti ed esaltati fin dal suo arrivo, e poi lacerati dallo «strappo» emotivo quando se ne va. Ma se questo è l’aspetto più facile della vicenda – con tutte le implicazioni che comporta affezionarsi a un essere indifeso pur sapendo che non è né sarà mai «nostro» – la prova più impegnativa per le famiglie che accolgono è farsi carico anche della madre naturale, spesso fragile e confusa. Significativo il racconto di una donna affidataria intervistata che nota «l’estremo disordine nel quale la ragazza tiene la sua camera». Come a dire che quella presenza ancora «estranea» lì dentro, sta in qualche modo rompendo un equilibrio familiare consolidato. L’immaturità della giovane madre spesso è tale da far pensare agli affidatari di doversi prendere cura «di due minori», seppure di età diversa. La difficoltà sta proprio qui: non trattare la mamma come un’altra figlia a tempo, ma come una persona adulta che non è ancora capace di stare di fronte al figlio, prendendola per mano e insegnandole la strada da percorrere per realizzare fino in fondo la sua vocazione di genitore. Spesso addirittura aiutandola a rivedere, come in un film, «spezzoni» della sua vita per non commettere più gli stessi errori. Una soluzione non semplice da realizzare, ma più adeguata rispetto alla comunità perché permette a madre e figlio di fare «esperienza di famiglia» e garantisce la continuità di un rapporto speciale nato fin dalle prime settimane di gestazione. È nel pancione che il feto riconosce il battito del cuore della madre e il suono della sua voce: tutto questo gli rimarrà come «eredità». Ed è all’insegna del riconoscimento di questo «filo rosso», non solo biologico ma anche emotivo, che si sceglie di salvaguardare quel legame facendosene carico attraverso l’affido di entrambi. È compito impegnativo e insieme gratificante, per una famiglia affidataria, aprirsi all’accoglienza di due fragili e preziose esistenze. E confrontarsi con una madre che ha smarrito l’ordine delle cose e il senso segreto della relazione col figlio. Una madre che chiede una seconda chance, resa possibile solo dalla gratuità con cui si sente accolta.