Siamo sinceri: tirarsi addosso un secchio di acqua gelata, facendosi un «auto-gavettone», a prima vista non è propriamente un gesto epocale. E forse nemmeno tanto intelligente. Tanto più se lo fai davanti a una telecamera, pubblicando poi sui social network il video dell’«impresa». Il gioco, peraltro, non è nemmeno così nuovo. Gli adolescenti americani lo fanno da anni. Nuovo – e per certi versi rivoluzionario – è il fatto che gli «autogavettoni» siano diventati, nel giro di poche settimane, una catena di solidarietà di una potenza inimmaginabile. Lanciata dall’ex giocatore di baseball Pete Frates, l’Ice Bucket Challenge (letteralmente: la sfida del secchio di ghiaccio) ha già coinvolto centinaia di personaggi famosi. Dal mondo dello sport a quello dello spettacolo, su su fino ai super ricchi come Bill Gates e Mark Zuckerberg e persino al presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Il gioco – altra «rivoluzione» positiva – funziona al contrario del mortale 'Nek nomination', molto popolare sui social. Se in quest’ultimo i ragazzini devono stordirsi di alcol e poi filmare un’impresa folle e rischiosa, solo per vincere il diritto a nominare tre amici, qui il «nominato» – dopo avere fatto la doccia ghiacciata – oltre che a fare la sua nomination dona una cifra a un’associazione americana che combatte la Sla. In realtà, all’inizio, doveva donarla solo chi rifiutava di fare la doccia ghiacciata. Ma, da quando è diventata una moda tra le star, il gioco si è trasformato: i ricchi e famosi fanno sia la doccia sia la beneficenza. Oggi la farà anche il nostro premier Matteo Renzi. Nominato dallo showman Fiorello. Che l’ha già fatta insieme a Jovanotti, Bocelli, Balotelli e altre decine di star italiane. Fin qui, c’è il gioco, la moda, il tormentone dell’estate. Ma come in tutti i giochi, anche stavolta esiste un lato maledettamente serio. Anzi, più «lati». Il primo è l’ennesima conferma della potenza del web e, dentro questo, dello strapotere americano. Senza la forza di internet, che rende tutto più veloce e più vicino, una moda del genere non sarebbe mai nata. O almeno ci avrebbe messo mesi, se non anni, a imporsi. Senza la Rete, ancora, l’Italia non avrebbe mai assorbito – fino a farla propria – quella tendenza tutta americana a considerare anche i potenti «gente comune». Da criticare e da prendere di mira nelle serie televisive, ma anche da coinvolgere in piccole, grandi iniziative. Per giocare insieme. Per costruire qualcosa insieme. Un’altra questione, ancor più seria, che la doccia gelata porta con sé è l’idea che si possa fare del bene anche facendo leva su una cosa banale e stupida come una sfida da ragazzini. Se non ci credete, chiedetelo all’associazione americana alla quale vanno i proventi di questo «gioco». L’anno scorso ha raccolto un po’ meno di un milione e mezzo di dollari, solo quest’estate quasi 15 milioni. Il decuplo. Ci sembra di vederli tanti operatori delle tante, tantissime associazioni benefiche sparse nel mondo diventare matti per inventarsi nuovi giochi benefici altrettanto semplici e potenti. Chiunque faccia del bene, di questi tempi, ha un gran bisogno di fronteggiare il calo di donazioni e l’aumento delle richieste di interventi. Difficile dire se ce la faranno. Se qualcun altro riuscirà a breve in un’impresa simile. Perché il web è strano, perché la gente è strana: quel «gioco» che un momento prima ci coinvolgeva tanto, un minuto dopo non ci fa più così effetto. E questo è un altro, forse il più importante rischio dell’Ice Bucket Challenge: farci fermare tutti alla superficie delle cose. Farci vedere il dito (il gioco) e non luna (la beneficenza). Perché per donare basta poco. Per essere davvero solidali occorre di più. Molto di più.