L'Italia non si isoli e rilanci. Una Costituente per l'Europa
Possibile che proprio quelle Regioni del Nord che decretarono con il loro "sì" al referendum istituzionale la nascita della Repubblica, che avrebbe portato poi alla firma italiana del Trattato di Roma, siano diventate oggi le meno europeiste? Il dubbio viene se si sovrappongono i voti del 1946 con quelli che negli ultimi cinque anni hanno decretato la vittoria nel Settentrione del centrodestra a trazione leghista. Rispetto al passato sembra che l’amore per il proprio Paese non corrisponda più con quello per l’Unione Europea, "casa comune". Proprio ora che servirebbe un’Italia coesa nella definizione di scelte strategiche per la Ue e nell’individuazione di persone destinate ai vertici comunitari.
Eppure, comunque andrà a finire il braccio di ferro del governo Conte con Bruxelles sulla ormai avviata procedura d’infrazione per debito eccessivo e comunque si concluda la partita sulle nomine dei futuri presidenti di Parlamento, Commissione, Consiglio e Bce, l’Italia è sempre più integrata nel tessuto connettivo dell’Unione e per questo non deve sottrarsi al suo ruolo nel momento cruciale delle trattative. Lo dimostrano i numeri della sua economia, il contributo che fornisce al bilancio comunitario e le stesse riforme che dovrebbero essere varate nella nuova legislatura a Strasburgo, che potrebbero far andare d’accordo europeisti e sovranisti.
Sul primo punto un po’ di calcoli li ha fatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue "Considerazioni finali". Il 60% delle nostre importazioni proviene dagli altri Paesi della Ue e il 56% dell’export è invece a essi destinato; questa interconnessione delle rispettive esportazioni è stata crescente, grazie all’allargamento dell’Unione, tanto che la loro incidenza sul Pil negli ultimi 20 anni è passata dal 13 al 18%. Stesso discorso per la finanza. I due terzi degli investimenti esteri diretti e di portafoglio nella Penisola provengono poi dai Paesi europei, che a loro volta ricevono il 60% di quelli italiani. Se si aggiunge il dato stimato dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che nell’ultima decade grazie ai tassi bassi il nostro Paese ha risparmiato 500 miliardi di euro sugli interessi, il quadro di una totale partecipazione dell’Italia alle sorti dell’Unione Europea e viceversa è evidente e irreversibile. Dipendiamo dal mercato unico e il mercato unico dipende da noi. Una considerazione che era anche alla base delle nozze, a quanto pare fallite, tra Fca e Renault.
Questa matrice europea diventa ancora più forte se si vedono poi i finanziamenti che forniamo alla causa.
L'Italia tra prestiti bilaterali e finanziamenti al fondo salva-Stati (Esm) impegna 58 miliardi di debito pubblico in più, ed è tra i primi contributori netti del budget stellato, avendo versato 12 miliardi di euro e incassato 9,8 nell’ultimo prospetto del 2017, che ci vede insieme a Francia (16,2 miliardi contro 13,5 incassati) e Germania (19,6 contro 10,9) tra i grandi elargitori europei. In tutto, le risorse lorde stanziate da Bruxelles nel periodo 2016-2020 sono state invece pari a 34 miliardi di euro, una cifra consistente, a prescindere dall’uso faticoso o inesistente che ne facciamo.
Se dal punto di vista economico non sta quindi in piedi una Italexit, dal punto di vista sociale occorre fare decisamente di più. Ed è per questo che la prossima legislatura europea dovrà essere ’’costituente’’. Tutti i Paesi, attraverso i loro rappresentati, dovranno saper dare un contributo per rispondere alle istanze emerse alle elezioni del 26 maggio 2019 per sventare la nascita di un’Europa delle piccole patrie delle grandi autonomie locali, si chiamino Catalogna, Baviera o Lombardo-Veneto non importa. Questo programma di governo condiviso, e che potrebbe essere portato avanti concordemente dall’Italia, dovrebbe includere in particolare impegni concreti su cinque fronti. La realizzazione degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile e il rispetto degli Accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico; la revisione degli strumenti della governance economica, a partire dal Patto di Stabilità e Crescita, ormai datato (1997) , passando per i successivi accordi adottati dopo il 2011 (Six Pack, Two Pack, Fiscal Compact) e arrivando alla creazione di un Ministro unico del Tesoro e all’emissione di Eurobond; l’adozione di un Social Compact che crei anche le condizioni per un mercato unico del lavoro e l’istituzione di un Reddito di cittadinanza europeo; il varo di un bilancio quinquennale che punti al rilancio degli investimenti, con l’introduzione della Golden Rule ('regola aurea') sullo scomputo degli investimenti dal deficit ai fini dei parametri di Maastricht; la revisione del Regolamento di Dublino sulle migrazioni e l’asilo, con programmi di ricollocazione vincolanti, pena la perdita dei fondi europei per gli inadempienti. Insomma, una missione chiara: ridurre le disuguaglianze tra economie e tra cittadini.
Sono riforme ambiziose ma necessarie e interconnesse, capaci forse di mettere d’accordo persino leader diversissimi tra loro come Macron e Weber, Sanchez e Orbán, e – in Italia – i leader della coalizione giallo-verde tanto quanto le opposizioni dem e azzurra, perché darebbero un senso di marcia all’Unione più spiccatamente sociale. Inducendo, magari, gli italiani ad amare di nuovo l’Europa. E sanando finalmente in casa nostra anche quella storica divisione del 1946 tra Nord (repubblicano) e Sud (monarchico). Parte da qui il recupero di un giusto ruolo propulsivo nell’Unione.