Negli anni più bui della crisi, gli Stati Uniti hanno trovato la ricetta per togliere i senza tetto dalle strade e dare loro speranza. E la stanno applicando, città per città, con risultati che fino a dieci anni fa sarebbero sembrati impensabili. Quest’estate la campagna nazionale che si propone di mettere fine al vagabondaggio cronico ha raggiunto il suo primo obiettivo: sistemare in una residenza permanente e sovvenzionata 100mila senza tetto. Grazie a questo sforzo senza precedenti, in tutti gli Stati Uniti dal 2010 al 2013 il tasso degli itineranti è diminuito del 16 per cento, in controtendenza con l’Europa, dove il fenomeno è in espansione, e in un periodo in cui la povertà generale è aumentata sensibilmente. Ci sono città come Jacksonville, in Florida e Nashville, in Texas, dove il numero dei senza fissa dimora si è ridotto di due terzi in appena un paio d’anni. Gli addetti ai lavori negano che esista una formula magica. Parlano piuttosto di un lavoro iniziato dal governo Usa alla fine degli anni Novanta e di una sempre migliore conoscenza del fenomeno. Ma, se pressati, finiscono tutti col rispondere con uno slogan: «
Housing first», 'prima di tutto la casa'. Prima ancora di individuare la causa del vagabondaggio o di curare le malattie mentali o la tossicodipendenza che sono spesso all’origine di una vita sulla strada, bisogna abbattere le barriere burocratiche e finanziarie che impediscono a una persona ai margini di trovare e mantenere una stanza permanente, al di là dei rifugi temporanei. In realtà, dietro la formula c’è un modello complesso che ha funzionato grazie a un chiaro piano nazionale e alla determinazione di molte associazioni del privato sociale. Se la spinta è partita dal governo federale, che nel 2010 ha lanciato, attraverso l’agenzia '
Council on Homelessness', la campagna '
Opening doors' (aprire le porte), i contributi verso il successo sono arrivati dalle comunità locali. I responsabili del progetto federale hanno esaminato gli studi disponibili sul vagabondaggio e hanno adottato il modello che sembrava funzionare meglio degli altri: identificare gli elementi più vulnerabili della popolazione itinerante, contattarli individualmente tramite una rete di assistenti sociali che li conoscono per nome, quindi trasferirli in appartamenti o stanze in pensionati governativi il più alla svelta possibile. E non sulla base dei progressi che stanno facendo per contribuire al suo mantenimento, bensì della loro necessità individuale. Uno dei primi ostacoli è stato quello di individuare abbastanza dimore sovvenzionate e di fare in modo che i senza tetto potessero ottenerle rapidamente. Ma si è dimostrato uno dei problemi minori. Le case sfitte a basso costo, infatti, negli Usa non mancano (secondo alcune stime il loro numero supera quello dei senza tetto). Il problema era abbinarle alle persone che ne avevano più bisogno. La campagna nazionale ha dunque mobilitato il ministero per gli Alloggi sociali, i Comuni e le associazioni di proprietari di immobili, presentando il fabbisogno di letti insieme a un elenco di modi per reperirli e dei fondi a disposizione. Le richieste erano precise. Potevano, ad esempio, concedere ai senza tetto di usare i 'buoni casa' emessi da un’agenzia, come quella per i reduci, in strutture amministrate da un’altra? Poteva un assessorato che assegna le case popolari modificare temporaneamente i suoi criteri per l’ammissione, permettendo l’accesso a persone con piccoli reati alle spalle? Potevano alcuni passaggi burocratici essere saltati? L'ostacolo successivo è stato quello dei costi per i trasferimenti. Si tratta di un migliaio di dollari per persona per il primo mese di affitto (ben al di sotto del prezzo di mercato), un deposito di sicurezza, le prime bollette e alcuni mobili. La campagna si è allora rivolta direttamente alla popolazione. «Non abbiamo chiesto: dona qualche dollaro per i senza dimora – spiega Becky Kanis Margiotta, ex ufficiale dell’esercito Usa e direttore della campagna nazionale –. Abbiamo detto: aiutaci a far entrare una persona in una casa che è pronta ad accoglierla. Solo a Nashville, in 11 mesi abbiamo ricevuto 120mila dollari». I primi successi sono serviti per raccogliere dati sui bisogni futuri e prevedere il bisogno successivo di case e di finanziamenti. Ma i risultati hanno soprattutto motivato le comunità locali, che hanno cominciato a porsi obiettivi ancora più ambiziosi, concentrando le iniziative esistenti nella messa in atto della ricetta vincente. Nel frattempo l’agenzia nazionale monitorava gli ex itineranti e confermava l’osservazione empirica alla base del progetto: una volta sistemati in residenze permanenti, i senza tetto ci sono rimasti, collaborando con gli assistenti sociali in modo da non perdere la loro ritrovata indipendenza. È a quel punto che sono scattati gli interventi per curare alcolismo, tossicodipendenza e malattia mentale, grazie a una cooperazione con il ministero alla Salute. La chiave di volta dell’operazione, a posteriori, sembra essere stata la chiarezza e semplicità dell’obiettivo (dare una casa ai senza dimora) e un forte coordinamento nazionale sugli scopi coniugato con un forte decentramento dei mezzi. «Gran parte del nostro lavoro è stato incoraggiare le associazioni e le istituzioni locali – aggiunge Kanis – e trasmettere loro il messaggio che le regole potevano essere modificate, le soluzioni inventate, purché portassero al risultato finale in modo trasparente». Fondamentale è stato anche il monitoraggio continuo di quanto avveniva sul terreno, in modo da condividere informazioni e raccogliere dati. «Le buone intenzioni e persino i soldi, da soli, non aiutano a mettere fine al vagabondaggio – sostiene Beth Sandor, direttore della qualità per la campagna
Opening doors – se non sai quali ostacoli dovrai superare nel cammino, come fai a superarli?'.Dare un volto e un nome ai 'casi' che venivano affrontati è invece servito a motivare i volontari e gli assistenti sociali, che non si sono sentiti scavalcati dalla burocrazia nazionale. La fortuna ha aiutato? Forse, ma nessuno intende riposare sugli allori. La campagna infatti ha già lanciato un’altra sfida: eliminare il vagabondaggio cronico negli Stati Uniti entro la fine del 2015 e quello dei giovani e delle famiglie entro il 2020.