Il Nobel ai resistenti civili dell’Est. Un segnale monumentale
Il Nobel per la pace assegnato in questo terribile 2022 è un premio che disarma e che emoziona. Un premio monumentale per concretezza ed eloquenza simbolica, come piantato accanto agli uomini e alle donne che nell’Est slavo d’Europa, tra Russia, Bielorussia e Ucraina, in un dolente e insanguinato groviglio di frontiere e di campi di battaglia civili e militari, presidiano fraternamente a mani nude e a intelligenze sguainate il confine tra la civiltà dei diritti umani, da una parte, e, dall’altra, l’oppressione cieca, l’indifferenza calcolatrice e affarista, la guerra più feroce e persino la minaccia dell’apocalisse nucleare. È un premio a chi agisce senza violenza, anche subendola ma resistendo alla tentazione di replicarla, per documentare, denunciare e sovvertire l’ingiustizia, l’illibertà e la brutalità bellica.
E un premio a gente che non uccide e non fa uccidere, e che si ribella all’assassinio sistematico delle persone e della loro dignità, dell’anima dei popoli e di quella organizzazione delle libertà e delle pari opportunità che ha diverse forme ma stessa sostanza e che abbiamo imparato a chiamare democrazia.
Insieme ai giurati di Oslo, siamo davvero grati ai tre premiati. Allo scrittore e tenace attivista bielorusso Ales Bialiatski, che dal 2011 accuse fiscali pretestuose tengono incatenato in una detenzione che l’Onu ha contestato ripetutamente. Alla Ong Memorial che ha cuore russo – è stata fondata da Andrej Sacharov, animata da Arsenij Roginskij ed è presieduta da Sergei Kovalev – ma tra crescenti difficoltà difende i diritti civili in tutte le Repubbliche ex sovietiche. E, ultimo ma non ultimo, al Centro per le libertà civili di Kiev, guidato da Oleksandra Matviichuk, che dall’inizio dell’invasione russa documenta con rigore le atrocità e i crimini di guerra compiuti contro la popolazione ucraina dando materiale inoppugnabile al tribunale della storia e forse anche alla Corte penale internazionale.
Questo monumentale premio a tre volti è un messaggio a qualcuno in particolare? Certo è una pessima notizia per Vladimir Putin che già deve 'sopportare' la lucidissima azione di Dmitry Muratov, caporedattore di 'Novaya Gazeta' e riferimento intellettuale e civile delle reti resistenza nonviolente russe. Un’azione sulla quale il Nobel 2021, ricevuto assieme alla collega giornalista filippina Maria Ressa, ha acceso più forti riflettori. E se è solo un caso che proprio ieri un tribunale moscovita abbia di fatto confiscato la sede di Memorial, beh, è un caso illuminante...
Così come benedetto è l’ulteriore, fermo segnale al presidente-padrone della Bielorussia, Alexandr Lukashenko. Un po’ tutti abbiamo pensato che un Nobel di così solido e trasparente significato fosse una buona notizia almeno per i vertici di Kiev, ma la reazione irritata dell’entourage del presidente Zelensky, all’insegna della inopportunità di avere accanto a personalità ucraine, «cittadini di Stati nemici» ha confermato che il veleno della guerra agisce in profondo. E che l’ingiustizia subita può rendere così ciechi da non saper riconoscere il bene neanche quando accade.
Non è una novità, purtroppo. Ne avevamo già visto gli effetti con le incredibili polemiche contro la preghiera silenziosa di due amiche, una ucraina e una russa, che lo scorso aprile hanno portato insieme la Croce sulla Via dolorosa del Venerdì Santo a Roma con papa Francesco. E poi, a fine agosto, addirittura con una nota di protesta formale contro la pietà espressa dal pontefice per Darya Dugina, la giovane donna, figlia di una personalità russa molto vicina all’autocrate del Cremlino, uccisa in un feroce attentato.
Eppure questo premio Nobel è un gran buona notizia per l’Europa e per il mondo. Comprendiamola e custodiamola insieme, perché ci aiuti a uscire dall’incubo della sopraffazione e della guerra.