Un ragazzo autistico e la fetta di salame. Una parabola sulla legge e i suoi limiti
Caro direttore,
non è una favola, ma un fatto realmente accaduto nella nostra civilissima città di Padova. Una mamma con un figlio colpito da una grave forma di autismo ha messo sempre in pratica i suggerimenti appresi dalla psicoterapeuta fin dai primi anni di vita del bimbo. Lo portava a scuola a piedi, perché riconoscesse le case e gli orti e la strada che ogni giorno doveva percorrere, gli insegnava a salutare le persone, a chiedere con educazione ciò di cui avesse bisogno attraverso la lingua dei segni, visto che gli manca la parola. Ma nello stesso tempo, portandolo con sé, ha sempre cercato che almeno le persone del quartiere lo riconoscessero e lo salutassero. Insomma, un minimo di vita di relazione. C’era però una cosa che piaceva molto a Roberto (nome di fantasia): andare al supermercato, riconoscere, sempre accanto alla mamma, tutto ciò che era solita comperare: quel tipo di pasta, quei vassoi di carne, quel tonno in scatola che poi a casa avrebbe mangiato, quel tipo di pane. E guai a cambiare giro e comperare qualche altra cosa in qualche altro supermercato, lui solo lì si sentiva sicuro e sapeva muoversi accanto alla sua mamma. Ma ciò che lo attraeva di più era il banco dei salumi, perché dopo anni e anni la banconiera gli offriva sempre su un pezzetto di carta una fettina di salame, quando la mamma lo comperava e anche quando no... E Roberto, ormai sedicenne, abbassava la mascherina e ingoiava con grande soddisfazione quella fettina che era il riconoscimento della sua persona.
Era diventata una consuetudine, un rito di cui tutti – mamma, figlio e banconiera – erano fieri. Una piccola cosa per una grave realtà. Ma ieri la banconiera era assente e Roberto pretendeva la sua fettina piccola di salame. Spiegare a un autistico che quel giorno il rito non veniva consumato veramente è impresa ardua come scalare l’Everest, per cui la mamma insisteva con molta pazienza che il nuovo banconiere potesse mettere la solita fettina in un pezzetto di carta, togliendola da quei due etti che era solita comperare. «Assolutamente no – diceva il commesso –, non si può consumare nulla qui dentro. È contro la legge, e io mi attengo ai regolamenti». Chiamato addirittura il responsabile del supermercato, mentre Roberto cominciava a spazientirsi, nemmeno costui ha cercato di intervenire con diplomazia e dirimere la minima questione, ma ancor di più ha esercitato tutto il suo potere per ripristinare il regolamento che non ammette deroghe.
E per fortuna Roberto, abituato dalla mamma ad accettare la sua sorte con pazienza e dignità, non è andato in escandescenze, visto che 16 anni e 90 chili di peso sono importanti per chi ha dentro di sé l’animo di un piccolo bambino. E poi ci insegnano che la società è accogliente e che il futuro dei nostri imperfetti figli è protetto da leggi e disposizioni, norme, e che addirittura possono essere inseriti nel mondo del lavoro! Ma se gli uomini non hanno cuore né elasticità mentale, non sanno ascoltare ragioni – e vi assicuro che la mamma le ha sciorinate a dovere –, e non li aiuta il buon senso, l’intuizione e l’esperienza, qualsiasi ruolo è inadatto a personaggi del genere che non dovrebbero ricoprire incarichi a contatto con il pubblico.
Gentile e cara presidente Cipresso, alla sua bella lettera, che racconta una storia purtroppo vera e molto triste, istruttiva come una parabola, aggiungo un solo pensiero, per me fondamentale. Nel rapporto con il nostro bellissimo e imperfetto mondo e nelle relazioni all’interno dell’umana società, senza regole non si vive bene e molte volte si soffre e si muore. Perché senza regole, e senza presidio della regole, cioè senza un senso del limite compreso e comunemente accettato e difeso, si crea uno spazio ambiguo, dove può scatenarsi l’arbitrio del più forte, del più arrogante e prepotente, del più insensibile, del cinico di turno. Lo vediamo (e lo patiamo) nella comunicazione (e manipolazione) mediatica e tramite social, lo sperimentiamo nel deragliamento disumano del prezioso concetto di "legalità" e al cospetto di quella miope e pedissequa traduzione pratica delle regole che chiamiamo burocrazia.
Lei fa bene a denunciarlo in nome di "Roberto" e di sua mamma, trasmettendoci affetto e rispetto per questo figlio autistico che, infatti, sentiamo anche figlio nostro, e comunque fratello. Perché le regole sono cruciali, ma è altrettanto vero che se pensassimo di poter affidare tutto alle regole, e se queste regole diventassero invalicabile barriera alla nostra umanità e alla solidarietà che dà contenuto giusto e giusta flessibilità a ogni misura morale e legale (umanità e solidarietà non si possono vivere solo "per regola" e chiedono cuore e un di più di ragione), allora saremmo su una strada sbagliata, e pericolosa. Lungo la quale butteremmo non solo la carta con la fettina di salame di "Roberto", ma ciò che dà luce e senso alla nostra stessa vita.
È un monito, questo, particolarmente attuale in questi giorni di dibattito – condotto, ahinoi!, soprattutto per slogan superficiali e presuntuosi e, perciò, troppo spensierato e scriteriato – su un progetto di legge importante e malcongegnato che cataloga e non libera (quello, per capirci, ribattezzato ddl Zan sulla omotransfobia). È un monito potente, mentre tornano a fioccare i ritornelli cattivisti contro i profughi e i migranti, donne e uomini e bambini per i quali sembrano contare più le carte e i bolli mancanti che le ferite aperte. Sono d’accordo con lei: sulla vita complicata e unica di "Roberto" e su ogni altra decisiva frontiera della nostra umanità e della nostra libertà, piccola o grande che sia, «personaggi del genere» non dovrebbero poter stare tanto ciecamente (ovvero a occhi chiusi sulle conseguenze dei loro atti e delle loro "legali" parole). E se ci stanno dovrebbero almeno sentirsi profondamente a disagio, e magari, una buona volta, potrebbero risolversi a cambiare registro. Per parte nostra, cara e gentile amica, qualunque cosa accada non smettiamo di restare umani e proviamo e riproviamo a essere giusti.