Opinioni

Il giovane giornalista assassinato. Un altro applauso (di carta) per Antonio

Ferdinando Camon sabato 22 dicembre 2018

È facile spiegare Antonio Megalizzi, il ventinovenne radiogiornalista ucciso a Strasburgo da un terrorista che il Daesh vanta come suo soldato, difficile è spiegare, capire, raccontare Cherif Chekatt, l’assassino. È facile dire perché Antonio è morto, è difficile dire perché Cherif ha ucciso. Eppure, quando si accompagna al funerale la vittima di un atto violento, ci si chiede qual è il 'sistema' che guidava la vittima, ma anche qual è il sistema che guidava l’uccisore.

Al funerale di Antonio, una collega di Antonio, che lavorava con lui nella stessa rete di radio universitarie, e si chiama Caterina Moser, sopravvissuta per caso alla strage, si pone il problema, si chiede come può definire Cherif, e lo definisce così: «Per disperazione sa solo come si odia». «Per disperazione»: dunque quel che fa lo fa senza sperare di cambiare qualcosa, è un puro atto distruttivo, vuol soltanto far piangere. Siamo a Strasburgo, capitale legislativa d’Europa, probabile che fosse l’Europa quella che il terrorista voleva far piangere. «Sa solo»: quindi non sa altro.

Non ha molti saperi, e non li mette a confronto, ne ha uno solo, e applica quello. Con lui non si può dialogare, su di lui non si può influire. Quel che lui sa è «odiare», anche il confronto, anche e soprattutto la diversità. È soltanto un terrorista, quindi può soltanto sparare e uccidere, fosse il capo di un impero, seppellirebbe l’impero nel terrore. Nella citazione di Caterina, «per disperazione», c’è anche una forma di pietà. L’altro, Antonio, viene salutato col nome di Don Chisciotte, perché combatte per qualcosa, l’Europa delle Culture Unite, che ancora non c’è.

E combatte con strumenti inoffensivi, che sono radio-studiogiornalismo, e con questi tre strumenti si guadagnava da vivere. Gli strumenti, microfono libri giornali, stavano in uno zainetto, lui girava con lo zainetto sulle spalle, e al suo funerale i coetanei son venuti a centinaia con lo zainetto sulle spalle. Lo zainetto è comodo per due ragioni: non t’ingobbisce, anzi ti drizza la schiena e t’allarga le scapole, e se trovi un amico ti permette di abbracciarlo. Il gesto dei ragazzi, che incontrandosi al funerale si abbracciano l’un l’altro, è sovraccarico di significati, perché in realtà abbracciano l’amico a cui danno l’ultimo saluto, la folla di ragazzi dentro e fuori della chiesa in realtà accompagna l’amico nel mondo in cui va. L’amico raccontava come nasceva l’Europa, seguiva le riunioni plenarie del Parlamento Europeo, ma faceva questo lavoro perché gli sembrava che i resoconti ufficiali avessero imprecisioni e astuzie, e lui voleva raccontare le cose come stanno.

Don Chisciotte. Voleva fare il vero giornalismo, perché diceva che questo è «il mestiere più bello del mondo». Perché ha a che fare col «dire la verità». Ho cominciato questo articolo sull’onda di una emozione: il funerale è stato interrotto dagli applausi quattro volte, e su questo giornale ho sostenuto che gli applausi ai funerali possono starci bene. A certi funerali, come questo. Son funerali in cui c’è una scelta da fare: con Don Chisciotte o con i benpensanti che sanno odiare? Chi vince, il ragazzo che ha in spalla uno zainetto o quello che ha un’arma? Gli applausi decretano la vittoria. Ribadita quattro volte. Cinque, con questo articolo.