Opinioni

Un posto per gli ultimi. Le vittime del Sinai, Israele, la giustizia

Paolo Lambruschi giovedì 5 aprile 2018

Va tenuto aperto uno spiraglio per risolvere il caso internazionale dei profughi africani in Israele. Questo Paese ha annunciato di volerne ricollocare 16mila in alcune nazioni occidentali, tra cui l’Italia, prima della smentita e della retromarcia innestata dal premier Netanyahu sull’accordo raggiunto con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Riannodare i fili di questo discorso sarebbe un atto di umanità e di giustizia, e contribuirebbe a dare soluzione alla tragedia da molti mai considerata e da troppi subito dimenticata dei profughi prigionieri nel Sinai, che “Avvenire” ha raccontato a fondo, e che continua nel dramma dei superstiti “spiaggiati” nello Stato ebraico.

Va ricordata la sofferenza patita da molti in quella sistematica sopraffazione presto divenuta anche mattanza, prova generale dell’orrore avvenuto in Libia pochi anni dopo. Verso la fine dello scorso decennio, con l’intensificarsi delle diserzioni dall’Eritrea di giovani in fuga dalla dittatura e dal servizio militare a vita e la contemporanea chiusura delle coste libiche da parte di Gheddafi in accordo con il governo Berlusconi, decine di migliaia uomini, donne e bambini in prevalenza eritrei, poi sudanesi ed etiopi provarono ad entrare in Europa passando per Israele dalla rotta che traversava il Sudan, l’Egitto e il deserto biblico. Si affidarono a due organizzazioni di trafficanti di esseri umani, carovanieri del deserto: i Rashaida, nomadi attivi tra Eritrea, Sudan ed Egitto e i clan di predoni beduini del Sinai.

Con l’intensificarsi del flusso, alcune bande di trafficanti con la complicità di criminali eritrei e sudanesi “massimizzarono” il profitto iniziando a sequestrare profughi e a chiedere riscatti sempre più alti. Le donne stuprate regolarmente, i prigionieri maltrattati, le torture fatte al telefono con i parenti per estorcere riscatti furono la cornice ignobile del dramma. Molte famiglie in tutto il globo si sono rovinate per liberare i congiunti. Non è tutto. Coloro che non potevano pagare sparivano, rivenduti a bande specializzate nel traffico di organi che uccidevano i malcapitati per far espiantare loro – grazie a medici corrotti – cornee, reni, cuore e fegato per trapiantarli in cliniche clandestine al Cairo. Si stima che siano morte così circa 8mila persone. I 38mila profughi che vivono in Israele sono i superstiti di questo eccidio che l’Onu considera sinora il peggiore del XXI secolo.

E qui cominciano le contraddizioni. I sopravvissuti sono chiamati da Netanyahu «infiltrati» perché entrati illegalmente, stesso termine dispregiativo utilizzato per i palestinesi, come ha spiegato suor Azezet Kidane, la comboniana originaria dell’Eritrea che fu la prima da Tel Aviv con i medici dell’Ong Phr a denunciare i fatti del Sinai. Mentre si sorvola volutamente sui loro patimenti, allo stesso tempo non si osa rimpatriarli per non violare la legge internazionale.

Quindi anche Israele implicitamente riconosce la particolarità del loro status, ma non concede asilo – lo fa raramente per la verità – nemmeno ai più vulnerabili: madri sole con i figli degli stupri e vittime di tortura. Sono stati concessi solo permessi temporanei di lavoro ad alcuni, lasciando gli altri in un limbo fatto di lavoro nero, illegalità, precarietà, sfruttamento, aggressioni. Il piano originale di Netanyahu prevedeva una deportazione verso Ruanda e Uganda dei profughi con una “buona uscita” di 3.500 dollari.

Ma la Corte israeliana lo ha bocciato perché illegittimo. Anche la società civile, diversi leader religiosi, i superstiti della Shoah si sono schierati contro. Per il governo circa 40mila profughi costituiscono un problema politico enorme. Allora si può chiedere a Netanyahu e alla comunità internazionale uno sforzo congiunto di buona volontà, collaborando alla riuscita del piano di ricollocamento dell’Acnur. Israele conceda asilo ad almeno a 20mila di questi profughi.

Agli altri scampati al Sinai sia invece concesso di raggiungere le famiglie e riannodare fili spezzati da troppo tempo in Italia, in Germania, in Gran Bretagna, in Scandinavia, in Canada... Poche centinaia di persone non costituirebbero un’«invasione» per nessuno, ma il ricollocamento sarebbe un atto di giustizia per provare a chiudere una storia di infinito dolore. Dare finalmente a questi ultimi della Terra un posto dove ricominciare con dignità sarebbe, infine, onorevole e coerente con le stesse radici dello Stato d’Israele che affondano nella persecuzione razzista culminata nel piano di sterminio nazista.