Opinioni

Boom di presenze alle udienze del mercoledì. Un Papa che risponde alla nostalgia d’infinito

Marina Corradi giovedì 3 maggio 2012
Le prenotazioni erano ventimila, ma ieri mattina in piazza San Pietro, ad ascoltare l’udienza del Papa, erano in quarantamila. Ai polacchi venuti da lontano nell’anniversario della beatificazione di Giovanni Paolo II si sono aggiunti altri, romani; e gente che a Roma era magari di passaggio, in vacanza, e che non aveva previsto di andare in San Pietro. Pazientemente si sono sottoposti alle code, ai controlli di sicurezza; una folla non piccola, uguale alla popolazione di una città come Alghero o Imperia, s’è radunata in una mattina feriale ad ascoltare Benedetto XVI.Il martirio di santo Stefano era il tema, evento ai primordi del cristianesimo. Storia antica, o – in un’ottica rudemente giornalistica – roba vecchia. Cose vecchie duemila anni. Perché una folla di quarantamila deve spostarsi per sentire parlare del primo martire cristiano? Così terribilmente lontani per noi, quei tempi. Perché allora, e non soltanto ieri, in tanti dal Papa, il mercoledì?Forse è che nell’opaca oppressione di un momento in cui tutto sembra in declino, in giorni in cui pare di essere condannati a volare basso, a non sperare troppo, a non attenderci, per noi e ancora più per i nostri figli, altro che limitati orizzonti, ecco proprio in un tempo come questo c’è più domanda di un’altra parola. Quando una crisi restringe le speranze degli uomini in spazi angusti, può diffondersi – spesso non detta, e nemmeno interiormente riconosciuta – una tacita attesa di un’altra, più grande speranza. Possiamo anche abituarci ad ascoltare ogni mattina cifre di spread in aumento, e di Pil e occupazione in calo; possiamo rassegnarci a essere più poveri, e a prevedere di esserlo ancora di più, da vecchi; ma proprio in questi incerti orizzonti cresce la fame di una speranza grande, così grande che non sia riducibile a alcun indice, non contenibile in alcun diagramma. Perché vanno ad ascoltare il Papa, senza averlo pianificato, quando attorno c’è lo splendore di Roma, in una mattina di maggio? Forse, vanno come si cerca una boccata di ossigeno, quando in una stanza l’aria è viziata: e ci si affaccia all’aperto, e si respira a fondo l’aria pura. Perché tutto può essere decadente ed eroso dalla crisi, ma gli uomini, almeno quelli che non si dimenticano di sé, hanno un radicale bisogno di un orizzonte largo e buono.Ora, se tutto quello che ci attende fosse descrivibile con le linee calanti dell’invecchiamento della popolazione o del reddito pro capite venturo, ci sarebbe davvero da essere tristi. Ci occorre un’altra parola; vogliamo sentirci dire che tutto ciò che di attesa e meraviglia vediamo, come un’alba, negli occhi dei nostri figli bambini, non è un inganno. E che davvero c’è, una eternità; che esiste, un amore che dura per sempre. E quanto grande? Quanto, con le nostre parole non sappiamo dire.Allora in questa impercettibile muta attesa accade che raddoppi, un mercoledì, la folla in piazza San Pietro. Senza magari averlo previsto, si va ad ascoltare la mite eppure certa voce di Benedetto XVI. Che ieri parlava di santo Stefano, il primo dei martiri. Stefano, che nei suoi ultimi istanti disse: «Ecco, contemplo i cieli aperti». Quei cieli aperti di cui abbiamo scritta dentro una misteriosa nostalgia, come se veramente solo nei loro spazi potesse dipanarsi, libero, il nostro destino. In quale nome, se non in quello di Cristo, è possibile una così audace speranza? Una mattina si va a ascoltare il Papa. Per sentirsi dire che questa audacia, negata, spesso derisa, è ragionevole, per sentirsi testimoniare un Dio non ignoto, che ci conosce anzi ad uno ad uno. «Con la fiducia e l’abbandono dei figli che si rivolgono ad un Padre, che li ama in modo infinito», è stata l’ultima esortazione di Benedetto XVI, ieri in piazza san Pietro. Per ascoltare questo erano venuti, in tanti, e anche da molto lontano. Per questo, e per nulla di meno.