L'analisi. Un nuovo federalismo africano può dare una mano alla pace
Folla in Sudan, Africa
Nessuno dispone di una sfera di cristallo per leggere il futuro, ma fin d’ora è chiaro che il mondo, inteso come società globalizzata, sarà molto diverso da come lo abbiamo lasciato alla vigilia della pandemia e soprattutto della crisi che insanguina l’Ucraina. D’altronde, lo stesso papa Francesco aveva prefigurato in più circostanze, a credenti e non credenti, uno scenario inedito: «Questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca». Da questo punto di vista, alla luce di quanto sta avvenendo oggi sul palcoscenico internazionale, è importante domandarsi quale sarà nei prossimi anni il posizionamento del continente africano. Lo spunto ci viene offerto dalla ricorrenza dell’istituzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) avvenuta il 25 maggio 1963, meglio nota come «Giornata mondiale dell’Africa».
Lungi da ogni retorica, fare memoria della recente storia post-coloniale africana, può aiutare a delineare nuovi possibili percorsi di riscatto per un continente anni luce distante dall’immaginario occidentale. Ma andiamo per ordine. L’Oua nacque per esplicita volontà di 32 Stati africani che avevano appena ottenuto l’indipendenza, con l’intento dichiarato di promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati del continente, consolidando la cooperazione e salvaguardando l’integrità territoriale. La posta in gioco era alta perché si trattava di portare a compimento il delicato processo di decolonizzazione. Successivamente, nel corso degli anni 90 si sviluppò un dibattito rispetto alla necessità di far fronte alle nuove sfide e ai cambiamenti globali. Tale dibattito portò alla Dichiarazione di Sirte (1999) per la creazione dell’Unione Africana (Ua), la quale venne lanciata ufficialmente nel 2002 al Summit dei Capi di Stato e di Governo di Durban.
Da rilevare che il contesto internazionale degli anni Cinquanta e inizio Sessanta, nonostante gli effetti devastanti del secondo conflitto mondiale, con la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza nucleare da parte dei due grandi blocchi contrapposti – Usa-Urss –, aveva messo in evidenza la fragilità delle istituzioni preposte al mantenimento della pace a livello planetario. Al contempo, però, si profilavano sull’orizzonte segnali di speranza, all’insegna del cambiamento, riferiti ai processi di decolonizzazione in atto in Africa e nel vasto continente asiatico. Non è un caso se i principali maître à penser del Panafricanismo fossero intellettuali africani anglofoni vissuti negli Stati Uniti o a Londra, come il ghanese Kwame N’Krumah, o che a Parigi si fossero insediati intellettuali del movimento culturale della négritude, in contatto diretto con il colonialismo francese; tra questi, il senegalese Leopold Sedar Senghor. Per comprendere la lungimiranza del loro pensiero è sufficiente leggere Africa Must Unite, pubblicato da N’Krumah nel 1963, proprio nello stesso anno in cui venne alla luce l’Oua. «Attualmente – scriveva N’Krumah, facendo riferimento allo scenario della guerra fredda – molti Stati africani indipendenti si stanno muovendo in una direzione che ci espone ai pericoli dell’imperialismo e del neocolonialismo. Ci occorre, perciò, una base politica comune per l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle relazioni estere e diplomatiche. Questa base di azione politica non richiede la violazione dell’essenza della sovranità dei singoli Stati africani. Questi Stati continueranno a esercitare una autorità indipendente, a eccezione di settori definiti e riservati all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo dell’intero continente».
Nell’ermeneutica di quegli anni vi fu comunque un evento spartiacque che rappresentò, con tutte le sue contraddizioni, un’occasione per affermare l’agognato riscatto. Dal 18 al 24 aprile del 1955 venne convocata la storica conferenza di Bandung (Indonesia), su iniziativa di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Repubblica Popolare Cinese e Indonesia. Vi presero parte in tutto 29 Paesi allo scopo di promuovere il cartello dei Non-Allineati, una coesione fondata sui caratteri comuni di povertà e arretratezza, con l’intento di realizzare una coalizione neutrale e al contempo emergente rispetto ai blocchi atlantico e sovietico. Nella dichiarazione finale si proclamò l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo, il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze e alcuni princìpi fondamentali di cooperazione politica internazionale fra i Paesi aderenti.
A Bandung venne usata per la prima volta in ambito politico l’espressione «Terzo Mondo», coniata pochi anni prima dal demografo francese Alfred Sauvy che paragonava quei Paesi al «Terzo Stato» della Francia pre-rivoluzionaria. Nacque così la distinzione fra le economie in via di sviluppo e quelle avanzate del libero mercato. I l fronte dei Paesi Non-Allineati venne comunque costituito ufficialmente alla conferenza di Belgrado del 1961 e negli anni successivi, nonostante alcune forti contrapposizioni interne, crebbe e molti Paesi africani entrarono a farne parte: dall’Algeria, all’Egitto, dall’Etiopia al Ghana, dalla Tanzania allo Zambia... Sta di fatto che dopo un lungo periodo di quasi oblio, il Movimento è tornato recentemente alla ribalta nel 60° anniversario della sua fondazione, celebrato con una conferenza in grande stile a Belgrado lo scorso anno dall’11 al 12 ottobre. Vi hanno preso parte delegazioni di ben 105 Stati e 9 organizzazioni internazionali. Questo movimento, qualora tornasse in auge, potrebbe rappresentare – in considerazione del nuovo scenario geopolitico che si sta configurando con la crisi ucraina – una nuova piattaforma multilaterale all’interno della quale molti Paesi extra-G20, tra i quali quelli africani, potrebbero dare risonanza alle loro istanze altrimenti derubricate a minori questioni regionali dai cosiddetti big players internazionali.
Sebbene non allineamento e neutralità non siano necessariamente coincidenti, c’è da considerare che il 5 marzo all’Assemblea generale dell’Onu 28 Paesi africani hanno votato una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Tuttavia, altri 17 si sono astenuti, 8 non hanno partecipato alla votazione e uno si è dichiarato contrario alla mozione. Pertanto è sempre più evidente la necessità di creare un rassemblement capace di interloquire nelle sedi internazionali, affermando il diritto a una pacifica coesistenza. Da questo punto di vista la Ua, che peraltro ha denunciato l’aggressione, potrebbe rivestire un ruolo strategico, contrastando gli approcci bilaterali che hanno così negativamente influenzato lo sviluppo e la crescita dell’Africa.
Oggi più che mai, l’Africa ha bisogno di un rinnovato Panafricanismo, e dunque di un federalismo continentale. Anche perché la stessa Unione Africana, nata sulle ceneri dell’Oua, non è riuscita finora a colmare le lacune di sempre, in termini di autofinanziamento, sostenibilità e coesione. Questa è una condizione più che mai necessaria ora che la crisi economica a livello continentale – scatenata prima dalla pandemia, poi dalla guerra in Ucraina con l’impennata dei prezzi delle commodities (cereali in primis) – sta acuendo la povertà. È del tutto evidente che l’economia circolare è l’unica via che consentirà di fare al meglio ciò di cui l’Africa ha disperatamente bisogno: disallineare la creazione di valore economico (necessaria per contrastare le diseguaglianze) dal saccheggio e dalla distruzione di risorse naturali e ambientali. Prima che sia troppo tardi.