Processi giusti e processi spettacolo. Un media-evo d'ingiustizia
Assistevano in prima fila allo 'spettacolo' della decapitazione, continuando a lavorare a maglia: erano le tricoteuses, donne del popolo che non possiamo immaginare tutte sadiche sanguinarie. Probabilmente, nella eliminazione fisica dei rappresentanti di quell’aristocrazia che aveva tanto e tanto a lungo vessato il popolo, vedevano la giusta punizione per i soprusi subiti e la fine del loro soffrire. Il fatto, poi, che si stessero ghigliottinando molti innocenti e che quella lama non fosse la soluzione dei loro problemi, non possiamo certo addebitarglielo. Anzi, non è azzardato ipotizzare che, se lo avessero potuto immaginare, avrebbero smesso di sferruzzare e avrebbero chiesto una giustizia più giusta, nonché risposte meno plateali, ma più appropriate.
Anche noi rammagliamo le nostre giornate cenando o sdraiandoci sul divano davanti alla tv, il cui palinsesto sempre più spesso erige un patibolo mediatico sopra al quale trascinare il presunto responsabile del terribile misfatto di turno, che tanto ha scosso la nostra sensibilità e tanto angosciante allarme ha suscitato in noi. Ascoltare perentorie affermazioni di colpevolezza rassicura: la profonda ferita sociale causata dal delitto trova convincente e tempestiva sutura, senza attendere un processo lontano da noi, quanto a metodo di accertamento, e dal fatto di reato, quanto a distanza temporale.
Per carità, nessun plausibile accostamento con quello squarcio della Rivoluzione francese. Eppure c’è qualcosa, nella prontezza con cui certi media (magari 'garantisti' a intermittenza, come certi politici, quando alla sbarra vanno figure amiche) si affrettano a ghermire lo sconvolgente fatto di cronaca nera e a predisporre il carro su cui far salire i condannati senza giudizio; nella ostentata esibizione dei risultati investigativi da parte delle autorità inquirenti, soddisfatte di poter annunciare che giustizia è fatta; nel nostro inconfessato bisogno di crederci; nel diffuso fastidio per qualsiasi accertamento che possa in seguito smentire quelle sbandierate certezze; nel ritenere che non vi sia nulla di più democratico del tribunale dell’opinione pubblica; c’è qualcosa, dicevo, che dovrebbe destare molta preoccupazione.
Perché il tribunale dell’opinione pubblica ha a che fare con la giustizia, quanto la folla acclamante sotto a un balcone o 'likeggiante' dai social network ha a che fare con la democrazia: cioè nulla, assolutamente nulla. Sarebbe bene piuttosto, dopo aver restituito a queste due forme di 'barbarie civile' i nomi appropriati – rispettivamente, infotainment giudiziario e oclocrazia ( óchlos, massa; krátos, potere) –, coglierne la strettissima e inquietante parentela.
Perché una società per la quale la dignità del singolo è valore sempre subvalente rispetto al proprio bisogno di rassicurazione è una collettività in balìa di chi saprà agitare pericoli e paure, puntando l’indice contro ogni diversità in grado di calamitare il rancore sociale. Perché l’insicurezza sociale, che troppi media a mo’ di specchio ustorio riflettono e alimentano, costituisce una ghiotta opportunità per certa politica deteriore: offre agli imbonitori di turno la possibilità di lucrare facile consenso contrabbandando per argine contro la criminalità il più cieco rigore punitivo, notoriamente inutile rispetto all’obbiettivo che si ostenta di voler perseguire (negli Usa, gli Stati che prevedono la pena di morte registrano mediamente più alti indici di criminalità rispetto a quelli che non la ammettono).
Perché all’opinione pubblica che reclama a gran voce una risposta immediata alla propria angoscia, talvolta la magistratura inquirente è indotta sciaguratamente a offrirla, con maldissimulato compiacimento, e, nel migliore dei casi, con impropri intenti rassicuratori. Perché i testimoni finiscono fatalmente e inconsapevolmente per rielaborare il proprio ricordo in modo da conformarlo al racconto che del fatto di reato hanno imbastito gli organi di informazione: una 'subornazione mediatica' che non potrà trovare alcun antidoto processuale. Perché questo ingravescente fenomeno per cui le autorità giurisdizionali, ogniqualvolta che sono chiamate ad assumere decisioni percepite come incidenti sulla sicurezza sociale, vengono cinte da una sorta di assedio emotivo, finisce per delegittimare la giustizia che non condanna e alla lunga potrebbe indurre persino a conformare alla precedente sentenza mediatica quella giurisdizionale.
Non vorremmo che un Alessandro Manzoni del futuro dovesse scrivere anche del nostro tempo che i giudici avevano «il timor di mancare a un’aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contra di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non meno miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commettere l’ingiustizia».
Sono tanti i fattori che dovrebbero sinergicamente concorrere per superare questa inquietante tendenza mediatica, segnatamente della tv, ad allestire parodie processuali: una maturazione civile del nostro Paese, dopo la desertificazione culturale prodotta da certa televisione commerciale, purtroppo in larga misura emulata dal servizio pubblico; una politica che sappia rinunciare alla cinica speculazione sulle paure della gente; una riforma del processo penale che ne riduca i tempi geologici; una maggiore professionalità degli operatori dell’informazione e della giustizia; più stringenti regole deontologiche e disciplinari; un assetto normativo che segni rigorosi confini tra informazione sul processo e processo sui mezzi di informazione, presidiandoli con rigorose sanzioni interdittive ed economiche. Ma nell’orizzonte prossimo non si scorgono miglioramenti significativi. Di certo, non se ne vedranno sino a quando non vi sarà diffusa, turbata consapevolezza dell’insidioso degrado civile che stiamo attraversando: il media- evo della giustizia penale.