Un blitz delle forze speciali inglesi, concordato tra i ministri La Russa e Fox, e i 23 marinai (tra i quali 7 italiani, compreso il capitano Diego Scussat) della motonave italiana «Montecristo», sequestrata dai pirati somali nell’Oceano Indiano, hanno ritrovato la libertà. Un lieto fine da applausi, che non deve però far dimenticare la realtà di un fenomeno criminale che, al contrario, è in continua espansione e rende sempre più insicure le rotte mercantili tra Europa e Asia. Due nostre navi sono ancora nelle mani dei pirati: la «Rosalia D’Amato», abbordata il 21 aprile 2010 nel mare Arabico e portata sulle coste a Nord di Mogadiscio; e la «Savina Caylyn», una petroliera con 86mila tonnellate di greggio nella stiva, attaccata l’8 febbraio 2010 al largo della Somalia. Nell’uno come nell’altro caso, le trattative sono ancora in corso. L’Italia, come si vede, è stata colpita pesantemente. E in modo deciso è stata costretta a reagire. Dal 2008 i nostri mezzi militari sono attivi nelle missioni internazionali di protezione del traffico navale (sia in "Allied Protector" sia in "Ocean Shield") e hanno contribuito a sventare diversi attacchi dei pirati. E ieri, proprio nelle ore in cui la «Montecristo» tornava libera a navigare, il ministro della Difesa La Russa firmava una convenzione con Confitarma (Confederazione italiana armatori) affinché i soldati italiani possano essere imbarcati sui mercantili che devono affrontare le rotte a rischio. Più in generale, però, va detto che la pirateria somala è finora riuscita a tenere in scacco, o quasi, la marineria di una vastissima comunità di Paesi. Basta osservare i dati diffusi dalla Camera di commercio internazionale: nei primi sei mesi del 2011 gli attacchi sono stati 266, cioè ben 70 in più dello stesso periodo dell’anno scorso. Dalle poche decine di qualche anno fa, inoltre, il numero dei pirati è ora stimato in circa mille uomini, bene armati e organizzati in almeno cinque grosse bande. Le loro attività, infine, oltre a espandersi si stanno anche diversificando: sono sempre più frequenti, dal Kenya, le notizie di rapimenti di turisti e di stranieri a scopo di ricatto. Una delle ragioni per cui Usa, Gran Bretagna e Unione europea hanno stipulato con il Kenya una convenzione affinché i pirati, se catturati, vengano appunto processati e detenuti sul territorio dello Stato africano. Le radici del fenomeno affondano, com’è facile intuire, nella disgregazione della Somalia e nell’incessante guerra per bande di cui il Paese è vittima dai primi anni Novanta. Le incursioni dei pirati si erano diradate nel 2006, dopo la sconfitta delle Corti islamiche da parte dell’esercito dell’Etiopia. Ma era solo una tregua: spostate la basi a Nord, nel Puntland che si era dichiarato autonomo nel 1998, i predoni avevano ripreso a colpire. Nel 2008 gli shabaab (la milizia islamica succeduta alle Corti) avevano addirittura attaccato i porti dei pirati, permettendo però dal 2009 l’approdo delle sequestrate e dirottate sulle coste della Somalia da loro controllate. Si tratta insomma di un gioco di alleanze che possono mutare, ma che hanno un unico fine: finanziare con attività criminali i gruppi che hanno precipitato la Somalia nella miseria e nella disgregazione, trasformandola in una Tortuga incontrollabile dove vige solo la legge delle armi. Contenuto a fatica sui mari con misure sempre più severe, il contagio pare ora volersi diffondere nei Paesi confinanti, in Etiopia e soprattutto in Kenya. Ma il virus piratesco va contenuto a tutti i costi: potrebbe dare il colpo di grazia a un Corno d’Africa dall’equilibrio già oggi precario per non dire rischioso.