Miriam Makeba, il Centro Fernandes. E la decisione di spedire i migranti in Albania
Le differenze. Qualche giorno fa ero nel Centro Fernandes di Castel Volturno, gestito dalla Caritas dell’arcidiocesi di Capua. Per ricordare Miriam Makeba, la grande cantante sudafricana, simbolo della lotta all’apartheid, che morì qui, nella “piccola Africa” casertana, il 9 novembre 2008 durante il concerto che aveva voluto donare agli immigrati dopo la strage di sei ragazzi ghanesi commessa dalla camorra il precedente 18 settembre.
Un’occasione - in questo luogo di accoglienza che dal 1996 aiuta, sostiene, accompagna migliaia di immigrati, spesso “fantasmi” senza alcun diritto e protezione - per riflettere sulle ultime scelte del governo. In particolare sulla decisione di “esportare”, “spedire” (così abbiamo titolato nei giorni scorsi) in Albania i naufraghi soccorsi in mare. «"Bisogna camminare insieme", diceva Miriam Makeba», ha ricordato il responsabile del Fernandes, Antonio Casale. «Come lei non possiamo accettare la logica dei muri, che non ci proteggono, ma ci imprigionano – sono state le parole del vescovo di Cerreto Sannita, monsignor Giuseppe Mazzafaro, delegato regionale per Migrantes –. Il sogno del Signore è un mondo senza muri e noi ci crediamo. Nessuno si salva da solo, abbiamo bisogno di qualcuno da abbracciare».
Le differenze. Abbracciare non allontanare, rinchiudere in un altro Paese per un anno e mezzo (se basterà). E dopo cosa succederà? C’era commozione al Fernandes, ma anche allegria, con musica, canti e balli, tra chi era stato testimone di quell’incontro di quindici anni fa con “mama Afrika”. Molti, allora bambini, ora cresciuti, alcuni diventati famosi come Mamadou che ha ispirato il film “Io capitano” di Matteo Garrone, altri rimasti qui in questa terra che comunque accoglie in libertà. Le difficoltà, i problemi, lo sfruttamento ancora restano, ma senza muri. Anzi, come sottolineano molti, la convivenza coi cittadini italiani è cresciuta, migliorata. Gli abbracci. Camminare insieme. Le differenze.
E allora invece di esportare le persone soccorse, salvate, invece di chiuderle tra mura straniere, le si accolga meglio a casa nostra che può essere anche casa loro, come si prova a fare a Castel Volturno, al Centro Fernandes, così come in tanti luoghi della bella accoglienza in giro per l’Italia. Si aiutino i “fantasmi” a uscire dalla loro condizione di senza diritti. E lo è magari da tantissimi anni, lavorando, creandosi una famiglia, avendo figli che frequentano scuole e bimbi italiani. Non si creino nuovi “fantasmi”, magari nascondendoli in un’altra terra straniera. Non si possono offrire muri a chi fugge dai muri. «Faccio appello a voi per aiutarci a conquistare i diritti per una dignità umana» disse Miriam Makeba il 9 marzo 1964 nel suo intervento alle Nazioni Unite. E aggiunse: «Mi è stata tolta la casa, ci è stata tolta la terra. Ho visto assottigliarsi la mia famiglia man mano che i miei parenti venivano uccisi dai militari. Io vivo in esilio fuori. Noi tutti viviamo in esilio... dentro». A questo grido di libertà non possiamo rispondere con scelte di non libertà.