Politica fragile, Libia e umanità a pezzi. Un gran Paese e troppi nani
Era noto da tempo che la partita libica fosse estremamente difficile e che fossero molto limitate le possibilità di riuscire a organizzare il prossimo 24 dicembre le tanto auspicate elezioni politiche. Ma il saperlo non attenua il senso di un ennesimo fallimento nel rimettere in sesto i cocci di quel Paese, incapace di uscire dal caos che favorisce lo strapotere delle milizie, le ambizioni personali e il proliferare dei traffici illeciti. Fra tutti quello di esseri umani, intrappolati fra le condizioni spaventose in cui si trovano nei campi e i pericoli dell’affrontare la rotta del Mediterraneo centrale; la «più pericolosa al mondo» ricorda l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, come dimostra la nuova, terribile strage dello scorso fine settimana, nella quale sarebbero morte in mare più di 160 persone.
Le ragioni di questa nuova impasse, con un rinvio delle elezioni a data ancora da stabilirsi, sono molteplici e di diversa natura. A livello più immediato, era chiara la fragilità di un percorso politico che aveva sì evitato, lo scorso anno, una pericolosa escalation militare regionale, ma che non aveva saputo risolvere i grandi snodi che minacciavano questo cammino. Il governo provvisorio era e rimane molto debole: da un lato le manovre del generale Haftar, il quale mantiene un’ambiguità di fondo e che non sembra aver completamente rinunciato alle sue ambizioni di potere – le stesse che hanno contribuito a far precipitare la Libia nell’anarchia. Dall’altro lo strapotere delle milizie (alcune delle quali di matrice islamista) che a parole sostengono il processo politico e il governo di transizione, ma che nei fatti rifiutano ogni reale assoggettamento a un potere civile, che limiterebbe la loro indipendenza e i guadagni derivanti dai mille loschi traffici e attività criminali in cui sono coinvolte. Lo si è visto nei giorni scorsi con le loro minacce contro il governo transitorio, che voleva sostituire il generale Abdel Marwan, comandante del distretto militare di Tripoli e potente "signore della guerra" legato ad alcune delle milizie più forti.
Non ha poi favorito l’emergere di candidature profondamente divisive e polarizzanti, prima fra tutte quella di Saif al-Islam, figlio del defunto dittatore Gheddafi, che hanno provocato un profluvio di ricorsi per escludere o re-includere questo o quel nome. Il tutto mentre si accumulavano i ritardi sui meccanismi legali e organizzativi del processo elettorale. Problemi che erano del resto evidenti, alla luce delle disastrose condizioni politiche, di sicurezza e amministrative in cui versava (e versa) il Paese.
La comunità internazionale si è illusa di potere organizzare un processo elettorale per riunificare una Libia profondamente lacerata, priva di istituzioni politiche affidabili, preda di fazioni rivali e milizie intoccabili. Il tutto senza riuscire a creare un consenso internazionale forte e credibile per spingere gli attori locali ad accettare questo processo. Le Nazioni Unite hanno continuato – come fanno da anni – a lavorare a un accordo politico che venisse 'legalizzato' il prima possibile da elezioni politiche generali, senza tuttavia predisporre un quadro di sicurezza minimamente credibile, come dimostrato dalle continue dimissioni degli inviati speciali dell’Onu. Ora tocca all’americana Stephanie Williams, che non sembra tuttavia avere a sua disposizione strumenti più incisivi rispetto ai suoi tanti predecessori.
Ci si trova così intrappolati in un duplice, opposto rischio: da un lato, cercare di riprogrammare le elezioni al più presto, a inizio 2022, può esacerbare le tensioni e portare al definitivo collasso del fragile accordo politico. Dall’altro, un loro rinvio sine die non può che rappresentare una nuova sconfitta per i tentativi della comunità internazionale, favorendo chi – dentro e fuori la Libia – ritiene che la soluzione passi per la via militare e non già per un ben calibrato compromesso politico.
La verità è che senza un serio coinvolgimento dei principali attori regionali e internazionali – per primi gli Stati Uniti, da sempre molto distratti su tutto ciò che accade in Libia – e senza un mandato chiaro alle Nazioni Unite, la situazione in Libia difficilmente potrà stabilizzarsi. E il Paese resterà prigioniero di nani politici e morali armati sino ai denti e pagati da questa o quella potenza per contribuire a disegni smozzicati e cinici. Non è solo un problema geopolitico: in questa situazione, a pagare il prezzo più alto sono i comuni cittadini e le persone in transito, profughi e migranti in cerca di un futuro migliore, trasformati in ostaggi, schiavi e vittime predestinate.