Linneo, gli astronauti, una zinnia e il valore dello sguardo È sbocciato un fiore nello spazio, ha colori bellissimi, di un rosso cupo denso, che risulta più cupo e più denso se fotografato e mostrato a noi sullo sfondo nero dello spazio vuoto o blu della Terra. Il fiore è sbocciato sabato scorso. Un astronauta lo fotografa e ce lo mostra orgogliosamente, da bordo della Stazione spaziale internazionale, in sigla Iss. Il fiore si chiama Zinnia, così lo ha battezzato Linneo, personaggio a me carissimo per un aneddoto, che spero sia storico. Da vecchio aveva perso la memoria, leggeva i suoi propri libri ed esclamava: «Perbacco, sono interessantissimi, chi li ha scritti?». Gli rispondevano: «Voi, maestro». E lui: «Bene bene, sono molto contento». Sono queste le contentezze della vecchiaia? Averne! Linneo chiamò questo fiore 'Zinnia' perché aveva un amico che si chiamava Zinn, e che a quel fiore aveva dedicato anni di studio. Da oggi c’è una zinnia, dunque, nello spazio. Domani saranno molte. Zinnie e rose e gigli. Avremo un universo fiorito. Per chi? Chi lo vedrà, chi lo annuserà, chi si compiacerà? Per chi si compie la fatica di far nascere e crescere un organismo vegetale così delicato e complicato, che nella sua nascita e nella crescita deve far fronte a mille pericoli? Anzitutto, cresce in tempi lunghi, ci mette parecchio, circa 70 giorni, che nello spazio sono un’eternità. Poi ha bisogno di luce, bisogna indirizzargli addosso quella che c’è. Ha bisogno di calore. Va protetto dall’umidità e dalle muffe, e non chiedete a me come mai questi pericoli ci sono nel cosmo. Infine, può patire una malattia, descritta come accartocciamento delle foglie. Gli astronauti, dallo spazio, dicono (e mostrano) che questo fiore è bellissimo, però non è perfetto, poteva anche riuscire meglio. Questione di esperienza dei, chiamiamoli così, coltivatori. Guardo il fiore, mentre scrivo queste parole. Il lancio dell’Ansa che ci consegna questo fiore (fra qualche anno ce ne manderà a mazzi) sul monitor del computer ha un titolo che dice: «Il primo fiore sbocciato nello spazio saluta il Sole». Sole è scritto maiuscolo, come un signore e padrone. La fantasia, irrazionale, galoppa. Un domani avremo prati di fiori nell’universo che saluteranno il Sole? L’universo sarà immensamente bello? Per chi? Chi lo guarda, chi lo vede? Che senso ha, un fiore nello Spazio? Fino a ieri, la domanda ce la ponevamo in maniera diversa, ma non poi tanto, cioè così: che senso ha un fiore nel deserto, dove nessuno va? O sulle nude rocce, dove nessuno sale? È la domanda che si pose Manzoni, quando scriveva un inno che non concluse mai, che era dedicato ai bambini uccisi da Erode, che voleva uccidere Gesù appena nato. Noi questi bambini li ricordiamo nella festa dei Santi Innocenti martiri il 28 dicembre. Non sappiamo niente di loro, non un nome, non un volto, niente. Sono morti al posto di qualcun altro. Ignoti. Sconosciuti. Inimmaginabili. Innocenti. Sono nati e sono morti, che senso hanno avuto? Nessuno ha fatto in tempo ad ammirarli, apprezzarli, ricordarli. Domandarsi 'perché' questi bambini innocenti e vittime Dio li ha creati, scrive Manzoni, è come domandarsi perché «sull’inospite piagge / all’alito d’aure selvagge / fa sorgere il tremulo fior, / che spiega davanti a Lui solo / la pompa del candido velo, / che spande ai deserti del cielo / gli olezzi del calice, e muor». Pare un destino chiuso nel vuoto, nell’abbandono e nell’inutilità. Ma anche Manzoni sbaglia. Ha appena detto che quel fiore spiega i suoi colori «davanti a Lui solo», dunque sta sotto uno sguardo che lo vede. Come può dire, poi, che «spande gli olezzi ai deserti del cielo»? Non sono deserti, se c’è quello sguardo. La bellezza ha sempre un senso. Anche nel deserto. Anche nello spazio.