Parole e politiche senza umanità. Un carico residuale?
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.
A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani «carico residuale»? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano. «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.
Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura».
È «il carico residuale», in fondo non è che un altro nome dato agli «scartati». La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà da chissà quale abisso vengono a galla editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
Intervistato da Rtl 102.5 , ieri Matteo Salvini ha detto: « Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga». Esattamente ciò che “Avvenire” denuncia da anni, con nomi, cognomi, rivelando connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel “Libyagate” che continua ad essere alimentato dalla “trattativa” tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per due volte dai nostri governi.
Anche quello attuale, che appena cinque giorni fa ha lasciato che “il patto della vergogna” si rinnovasse d’inerzia. Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di «carico residuale», che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?