«Questo andare dal centro (Gesù) alla periferia e viceversa ci dà l’atteggiamento fondamentale: la misericordia. Concludo: dobbiamo pensare una nuova evangelizzazione con questi due atteggiamenti: forte coraggio apostolico e misericordia. Credo che questo deve crescere nella Chiesa…». Sono le parole, mai rese note, pronunciate dall’allora arcivescovo di Buenos Aires nel corso delle Congregazioni generali per il Conclave del 2005. Il contenuto dell’appunto autografo, di portata ecclesiale ed ecclesiologica, era poi stato ripreso due anni dopo da Jorge Mario Bergoglio sia in quello che egli avrebbe detto al Concistoro del 2007 sia in un’intervista che mi concesse a conclusione della Conferenza di Aparecida: «Al Concistoro avrei accennato a due cose delle quali in questo momento si ha più bisogno: misericordia, misericordia e coraggio apostolico». Sono il tracciato non solo di un percorso personalmente vissuto e condiviso in una Chiesa particolare, ma l’eco profeticamente ritornato presente di un istante decisivo per la storia: il momento nel quale la Chiesa cattolica in Concilio ha iscritto nel suo lessico la parola "misericordia" come paradigma sostanziale della sua missione.Così come si esprime nella
Lumen gentium e nella
Gaudium et spes, nello spirito del Concilio ispirato da Giovanni XXIII e raccolto da Paolo VI, Francesco ha dunque tracciato l’itinerario della misericordia sulla scia conciliare che abbiamo visto rivivere dalla sua elezione fino a trovare compimento nella matura decisione di indire un Anno Santo della misericordia. Da aprire proprio nel cinquantesimo della chiusura del Vaticano II, come esplicato nella Bolla giubilare
Misercordiae vultus. Nelle dense pagine del testo papale, si coglie nitidamente l’intuizione che ha guidato il «Vescovo di Roma, servo dei servi di Dio» ad avanzare l’impegno di un Anno Santo giubilare per marcare la strada dai tratti escatologici sul futuro della Chiesa e della sua missione nel mondo. «Gesù – scrive papa Francesco – afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi figli».
A papa Francesco, è stato osservato, le speculazioni sul Concilio non interessano granché, così come ignora quanti hanno scambiato le «tradizioni» di una generazione fa con la grande Tradizione a cui non solo Yves Congar riservava la maiuscola e della quale il Concilio è frutto e sviluppo nella comprensione del Vangelo: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dal Vangelo». Un’affermazione pronunciata da Francesco già nel primo anno del suo pontificato e che da sola recide tutta una stagione di riduzione dell’evento conciliare a frasario per disattenderne le istanze profonde e decisive. Per il primo Papa ad essere stato ordinato prete dopo il Concilio, esso è tale per essere vissuto nel suo insieme. E proprio perché ne è figlio,
naturaliter et simpliciter, come figlio, lo incarna. E se il Concilio voleva essere «un segno della della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea
Gaudet Mater Ecclesia – ed effettivamente è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto «la medicina della misericordia» – il Giubileo presente non può che essere anche il Giubileo del Concilio,
hic et nunc, dove il tempo della sua ricezione e il tempo del perdono coincidono. Così nella
Misericordiae vultus il perdono, che abbraccia non solo i devoti ma l’intera famiglia umana, è protagonista. O meglio, l’esperienza vissuta del perdono, sottolineando che fare quest’esperienza è una grazia che il ministero apostolico annuncia. La Chiesa – ripete Francesco – esiste solo come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio. Se non svolge questa funzione, ogni iniziativa ecclesiale finisce per ostacolare e tradire la missione affidata da Cristo agli apostoli. E forse – suggerisce il Papa con un passaggio appena accennato ma quanto mai eloquente – è accaduto proprio questo, in tante dinamiche passate e recenti della mobilitazione ecclesiastica. «Per tanto tempo – riconosce il vescovo di Roma – abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia». Un orizzonte che anche sul piano ecumenico ha una capacità inclusiva da rendere significativamente «provvidenziale» persino il suo ricordare nell’Angelus di domenica scorsa, proprio alla vigilia dell’inizio del Giubileo della misericordia, lo storico gesto di riconciliazione tra cattolici e ortodossi avvenuto alla vigilia della chiusura del Vaticano II. E che Francesco ha ripreso ricollocandolo nell’oggi della richiesta di «perdono a Dio e tra di noi per il peccato della divisione» senza cui «non può esserci autentico cammino verso l’unità», rendendo così nuovamente eloquente la testimonianza di come nel servizio di «presiedere nella carità universale» si ascrive tutto il servizio del successore di Pietro.
Un servizio che proprio un ortodosso della statura di Atenagora, conversando con Olivier Clément cinquant’anni fa, con rara lucidità aveva illuminato: «Dovremmo scrutare più profondamente il destino di Pietro nel Vangelo. Pietro – ha scritto san Gregorio Palamas – è il prototipo stesso dell’uomo nuovo, ovvero il peccatore perdonato. Egli può essere qui solo per ricordare alla Chiesa che essa vive del perdono di Dio e non ha altra forza che la Croce. Se nella Chiesa c’è un vescovo che è "l’analogo" di Pietro allora siamo ben lontani dal potere e dalla gloria mondana. E se Pietro dimenticasse che la sua testimonianza fondamentale è quella del peccatore perdonato allora, a immagine di Paolo ad Antiochia, dei profeti verranno a opporsi a lui "a viso aperto (
Gal 2,11)"». Dopo il Concilio Vaticano II anche l’attuale successore di Pietro per grazia incarna il testimone e il profeta. È questo il «balzo innanzi» epocale che la storia della Chiesa sta attraversando. L’apertura della Porta della misericordia ne è il sigillo.