Risposte all'Italia che non ce la fa. Un atteso primo passo
L’approvazione del disegno di legge delega per il contrasto alla povertà segna di per sé un passaggio storico, per il nostro Paese, non fosse altro perché finalmente l’Italia, ultima nell’Unione Europea, si dota di una misura strutturale di aiuto a chi non ha mezzi. Al tempo stesso, però, il sì definitivo del Senato arrivato ieri – ad oltre un anno dall’approvazione del progetto in Consiglio dei ministri – rappresenta ancora solo il primo passo per dare soccorso ai 4,6 milioni di persone in povertà assoluta, 1 milione di minori, a cui manca l’essenziale.Un primo passo, anzitutto, perché trattandosi di una legge delega, il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha sei mesi per presentare uno o più decreti attuativi che diano corpo alla misura. Testi che dovranno ripassare il vaglio delle commissioni parlamentari per poi diventare effettivamente operativi. Altri mesi da attendere per chi ha l’urgenza di mettere insieme almeno una cena decente.
I prossimi passi che diranno della reale portata e qualità del Piano nazionale contro la povertà, però, sono altri: la previsione delle risorse per gli anni a venire da un lato e quanta parte di queste sarà destinata a costruire i servizi di sostegno, di inclusione attiva nel circuito socio-economico di chi si trova relegato ai margini.
Per il 2017, infatti, la legge di stabilità ha stanziato 1 miliardo e 150 milioni di euro per finanziare la nuova misura, a cui si possono aggiungere le risorse non spese lo scorso anno per un totale di 1,6 miliardi circa. Per il 2018 - quando presumibilmente lo strumento diverrà realmente operativo - si ipotizza di arrivare quasi a 2 miliardi. È tanto perché è la prima volta che si destina un simile stanziamento per una misura strutturale e non sperimentale di contrasto alla povertà. Ma è poco, pochissimo se raffrontato con un bisogno cresciuto del 141% in 10 anni. Il governo stima ora di raggiungere in via prioritaria 300, forse 400mila nuclei familiari e la metà dei bambini in stato di bisogno. Nella migliore delle ipotesi poco più di un terzo delle persone in povertà assoluta. Ai quali, oltretutto, non potrà che essere destinata una provvidenza modesta, variabile ma non superiore a 480 euro al mese per nucleo familiare. Non sono questioni politiche, ma pura matematica. Non a caso l’Alleanza contro la povertà ha da tempo stimato in 7 miliardi di euro la spesa annua necessaria per un intervento sull’intera platea dei 4,6 milioni di poveri assoluti, seppure da raggiungere in maniera graduale.
Decisivo sarà allora l’atteggiamento del governo Gentiloni già nelle prossime settimane, quando si metterà nero su bianco il nuovo Documento di economia e finanza con gli impegni di bilancio per i prossimi anni da concordare con la Commissione europea. Perché si possa considerare insieme sincera e realistica la volontà di combattere la povertà occorrerà prevedere uno stanziamento superiore ai 2 miliardi di euro per il 2018 e una progressione di almeno 1,5 miliardi aggiuntivi per ogni anno successivo fino alla copertura integrale del bacino di poveri assoluti. Non è però solo una questione di soldi. O meglio non è solo una questione di quanti fondi si riescono a distribuire materialmente ai più poveri. La tentazione adesso potrebbe infatti essere quella di massimizzare il beneficio, distribuendo sotto forma di sussidio l’intero stanziamento. Ma sarebbe una visione di corto respiro. Attualmente ai servizi territoriali sono stati destinati 170 milioni di euro, più altri 40 per l’assunzione di 600 operatori dei Centri per l’impiego. Un buon inizio. È questo però il tempo in cui gettare le fondamenta di un robusto sistema di servizi di formazione, di accompagnamento verso il lavoro, di cura sociale e sanitaria, fondamentali per far uscire le famiglie in difficoltà dalla trappola della miseria in cui si trovano per disoccupazione, ignoranza e spesso dipendenze. Trascurare l’investimento in queste prestazioni – con il necessario coinvolgimento di enti locali e Terzo settore – equivarrebbe a nutrire un prigioniero senza aprire le sbarre che lo tengono rinchiuso, a dover reiterare gli interventi senza dare una prospettiva di affrancamento.
Perché il passaggio diventi davvero storico, allora, occorre che i prossimi passi siano spediti ma più ancora ben impostati.