Un anno dopo: giusto è smettere la mattanza, e che non caschi il mondo
Caro direttore,
a più di un anno, ormai, dallo scellerato avvio della “operazione speciale” in Ucraina, non vediamo soluzioni, ma solo timori di “escalation”. C’è una escalation che è già avvenuta, e di cui si parla troppo poco, e riguarda la definizione stessa di soluzione della crisi cominciata nel 2014. Infatti, se dopo l'occupazione russa di Crimea e Donbass si era cercata una via diplomatica, sia pure frettolosamente e maldestramente, con gli “accordi di Minsk”, adesso il paradigma è cambiato: non c’è pace senza vittoria, e la vittoria si ottiene solo con le armi. Non abbiamo dubbi su cosa – e chi – sia la causa della radicalizzazione del conflitto. Chi accusa quelli che ragionano su questo di non distinguere tra aggressore e aggredito si sbaglia di grosso.
Ma la guerra, prima ancora delle armi, richiede obiettivi chiari e realistici. Quando si trattava di fermare la marcia dei carri russi su Kiev, non ci sono stati tentennamenti. Ma se riconquistare la Crimea militarmente è – a detta di tutti gli esperti – inverosimile, le crescenti forniture di armi servono solo ad alimentare le illusioni della parte più radicale della leadership ucraina, che punta tutto sul successo militare. In breve, stiamo spingendo i nostri alleati verso una strada che sappiamo già essere sbagliata. Si obietterà che il vero scopo della corsa alle armi è aumentare la pressione sull’“impero del male” causandone la resa, come avvenne agli Imperi Centrali nel 1918. Ma anche questo non sarebbe che un tragico gioco d’azzardo. Intanto perché potremmo stancarci prima noi, come è avvenuto in Afghanistan; e quel giorno, Dio salvi l’Ucraina. Ma anche se riuscisse, il collasso della Federazione russa causerebbe una catastrofe geopolitica tale da far impallidire quelle seguite al crollo di Libia e Iraq. Non dirò che nel frattempo gli ucraini, che crediamo di difendere, continuerebbero a morire, né del rischio di reazione nucleare, che crescerebbe esponenzialmente con la disperazione del nemico.
I paladini del “Pereat mundus sed fiat iustitia” non si commuoveranno per questo. Ma è agghiacciante che nessuno si preoccupi della crescente militarizzazione dell’Europa. Le sconcertanti (eufemismo) parole del segretario generale della Nato, secondo cui spendiamo troppo poco in armamenti, e le proposte di reintrodurre la leva obbligatoria in molti Paesi, non lasciano dubbi sul processo in atto. È stato detto che la Ue non ha il diritto di suggerire ai cittadini ucraini quali condizioni di pace accettare. Sacrosanto. Però ha il dovere di spiegare ai cittadini suoi, se i valori – che la Ucraina dice di voler condividere – sono ancora quelli dei Padri Fondatori, che la vollero per mettere fine a secolari conflitti; o se dobbiamo rassegnarci a diventare l’avamposto armato di una guerra perpetua contro i “barbari” dell’Est, che oggi sono russi, e domani chissà, cinesi. La Chiesa insegna da sempre a pregare “pro mora finis”. Credo che anche stavolta il Cielo ascolterà, e rimanderà la fine del mondo. Ma la fine dell’Europa e del suo sogno di pace è già alle porte. Grazie per la attenzione e per il vostro impegno.
Luca Fabri Genzano di RomaGrazie del suo grazie, gentile e caro amico. E del suo lucido e teso riassunto della feroce guerra russo-ucraina. Le rispondo con due frasi. La prima: diciamolo che è intollerabile che gli invasi ucraini – e anche i russi, sbattuti al fronte dal Cremlino – continuino a morire nel mattatoio bellico. La seconda frase, che non mi stanco di ripetere, rovescia l’apocalittico brocardo latino (un detto attribuito a uno degli accoltellatori di Giulio Cesare) da lei richiamato e lo trasforma in fiat iustitia ne pereat mundus. Potremmo liberamente tradurre, con ideale colonna sonora affidata al “Girotondo” (della guerra) di Fabrizio De André: giusto è che non caschi il mondo.