Scintille di bellezza /8. L’insetto stecco e le maschere: chi sa togliersele cresce
C’eravamo tutti a cena: io, mia moglie e i miei figli. Pietro, mio figlio, che all’epoca aveva cinque anni, è sempre stato un grande appassionato di racconti: qualsiasi argomento gli si proponga, dalla storia degli antichi greci ai miti classici, dalla saga di Star Wars ai manga giapponesi, ascolta, osserva o legge rapito. Ed è anche un grande narratore: in famiglia di solito è lui a tenere banco. Ma non quella sera. Quella sera tutti ascoltavamo Mario, un bambino figlio di amici di famiglia che era a cena da noi.
Mario parlava di insetti stecco. Avete presente quegli insetti che sembrano ramoscelli e quando stanno immobili si mimetizzano perfettamente nella vegetazione? Ecco, quelli. Mario parlava di insetti stecco perché i suoi genitori conoscevano un entomologo che gliene aveva regalati alcuni. Mario li allevava in un terrario. Incuriositi, lo tempestavamo di domande: cosa mangiano gli insetti stecco? Si muovono molto? Dormono? Ti salgono sulle mani? Mario rispondeva a tutti, paziente.
Mio figlio Pietro era insolitamente taciturno: abituato a stare al centro dell’attenzione coi suoi racconti, era infastidito di non esserlo in quel momento. A un certo punto, Pietro chiese a Mario: «Ma quanto sono grandi i tuoi insetti stecco?». Mario si strinse nelle spalle, ci pensò un istante, mise in parallelo i due indici delle mani a una distanza di circa dieci centimetri e rispose: «Più o meno così». Pietro lo guardò con aria di sufficienza: «Mi dispiace!», disse, facendo un sorrisetto sarcastico. «Perché ti dispiace?». «Mi dispiace che siano così piccoli. Io una volta ho visto un insetto stecco grande così». Ciò detto, Pietro spalancò le braccia alla misura massima che i suoi cinque anni gli consentivano.
Capii che voleva rubare la scena a Mario. Gli dissi in modo deciso: «Pietro, ti sbagli. È impossibile che tu abbia visto un insetto stecco così grande. Non esistono insetti stecco di quelle dimensioni». Pietro non si arrese. Mi fissò negli occhi: «Ma come? Non ti ricordi? C’eri anche tu quando ho visto quell’insetto stecco!». Rimasi sbalordito. Lui continuò, senza abbassare lo sguardo: «Eravamo sulla pista ciclabile qui dietro casa, tu pedalavi e io ero sul seggiolino. E, lungo la pista ciclabile, c’era un insetto stecco grande così!». Spalancò di nuovo le braccia al massimo. Mentiva spudoratamente. Si inventava un episodio per averla vinta. Mi venne quasi da ridere, ma resistetti. «Quello che dici è impossibile, Pietro. Nella nostra zona non ci sono gli insetti stecco in natura. Non puoi averne visto uno qui vicino».
Ma Pietro non aveva intenzione di demordere: «E dove vivono gli insetti stecco allora?». Mi prese in contropiede. Non sapevo cosa rispondere, ma mi tornò in mente un viaggio che avevo fatto molti anni prima in una missione in Africa. Una sera, nella veranda del missionario che ci ospitava, avevamo visto un insetto molto grosso, col corpo marrone e affusolato e le zampe lunghe e strette. Era davvero un insetto stecco? Adesso ho qualche dubbio. Ma, in quel momento esclamai deciso: «In Africa. Gli insetti stecco in natura vivono solo in Africa!». Mi sbagliavo clamorosamente: scoprii in seguito, curiosando, che anche Italia gli insetti stecco vivono in natura. Ma in quel momento non contava: contava avere la meglio, mi ero intestardito; ero certo di avercela fatta, di avere inflitto a Pietro un colpo da ko.
Pietro non abbassò lo sguardo. «Infatti noi eravamo in Africa», disse lentamente. Si guardò intorno. Capì di avere esagerato: Pietro non era mai uscito dall’Europa. Ormai però non poteva tornare indietro. «Io sono nato in Africa», aggiunse, serissimo. «Quando ero piccolo, avevo un leone al posto del cane». La nascita in Africa. La prova inconfutabile. Scoppiammo tutti a ridere, soprattutto Beatrice, sua sorella di sette anni, che era seduta a tavola di fianco a lui. Pietro scattò in piedi, infuriato, e le rifilò uno spintone. Intervenne mia moglie: «Basta, Pietro! Tu hai detto una stupidata e Beatrice ha riso, non puoi prendertela con lei! E soprattutto non si alzano le mani! Mai! In questo momento non sei in grado di stare con noi: esci dalla cucina, calmati e rifletti su come ti sei comportato. Per almeno cinque minuti non vogliamo vedere la tua faccia».
«Non vogliamo vedere la tua faccia», disse proprio così. Pietro la prese alla lettera. Uscì dalla cucina a testa bassa, coi pugni chiusi. Andò in camera sua. Tornò in cucina trenta secondi dopo. Gli era stato detto che non volevamo vedere la sua faccia e la sua faccia non si vedeva: Pietro indossava una maschera di Winnie The Pooh, con la quale si sedette al suo posto e rimase immobile. Racconto spesso questo episodio alle mie classi. Al di là delle risate che suscita, lo trovo particolarmente significativo, perché insegna che è sempre necessario stare attenti alle maschere che tutti, metaforicamente, rischiamo di indossare. Pietro non si è messo la maschera quando ha indossato quella di Winnie the Pooh: se l’è messa molto prima, quando ha detto di aver visto un insetto stecco molto più grande di quelli di Mario. Quando è stato pronto a tutto pur di attirare l’attenzione su di sé, pur di riprendersi il suo ruolo. Proprio come me, che ho messo la maschera dell’autorità capace di imporsi nel momento in cui ho affermato, dicendo una sciocchezza, che gli insetti stecco vivono in natura solo in Africa.
Indossiamo una maschera tutte le volte che non agiamo rivelando chi siamo, ma per affermare noi stessi, perché siamo insicuri e vogliamo ottenere un riconoscimento dagli altri a tutti i costi. Indossiamo una maschera tutte le volte che ci chiediamo cosa gli altri penseranno di noi, invece di domandarci che cosa è giusto fare e quali sono i nostri desideri più autentici. Indossiamo maschere a tutte le età. Tra i banchi di scuola mi capita di vederne spesso: la maschera della trasgressione, quella della provocazione continua, quella dell’indifferenza, quella della svogliatezza, quella della prestazione eccellente a tutti i costi, quella del perfezionismo. Uno dei compiti della scuola, a mio avviso, è proprio aiutare ragazze e ragazzi ad abbassare le maschere, a mostrare il loro vero viso, a scoprire il loro valore, quello che talvolta ignorano di avere.
Una poesia, un testo filosofico, un’equazione di matematica, una lezione di scienze o di meccanica: tutto può contribuire a far scoprire il mondo, a trovare in esso il proprio posto, a relazionarsi alla realtà con autenticità, senza bisogno di inutili difese. Ricordo con grande affetto Betty, una ragazza che di maschere ne aveva diverse: maschere figlie di un vissuto di sofferenza e dei giudizi che i compagni le cucivano addosso, senza conoscerla davvero. Un giorno si mostrava disinteressata, quello dopo iperattiva. Un giorno ti provocava, il giorno dopo ti assecondava in tutto. Alla fine Betty decise di togliersi la maschera: venne a parlarmi in un intervallo, mi disse che era stanca di vivere così, che sentiva la necessità di ripartire da zero. Andò a studiare psicologia in una città lontana: «Gli psicologi in passato mi hanno aiutata, ora ho capito che anche io desidero aiutare gli altri», mi disse. Si dedicò al volontariato nelle periferie. Ritrovò se stessa. Il giorno della laurea, mi mandò una sua foto con un sorriso luminoso e una citazione di Bernhard Bueb adattata per l’occasione: «Nessun alunno è perduto, se ha un insegnante che crede in lui».
Quel sorriso e quelle parole sono stati uno dei regali più belli della mia vita. Sono parole che porto sempre con me. Non credo di aver fatto molto per Betty, credo che la più grande impresa l’abbia fatta lei, strappandosi la maschera e decidendo di essere chi voleva. Perché, quando la maschera cade, la vita diventa uno spettacolo.