Opinioni

La dura estate di malati, anziani e disabili. La sfida è ancora umanizzare la sanità

Carla Collicelli giovedì 12 agosto 2010
Delle cronache estive fanno parte ormai da anni, mescolate alle ben più presenti notizie sulle vacanze e i divertimenti, immagini e informazioni su quelle categorie sociali che a causa di malattia e solitudine non solo non possono “andare in ferie”, ma si ritrovano anche in una condizione di particolare sofferenza e rischio: dagli anziani reclusi nel caldo delle nostre inquinate città, ai malati cronici che fanno i conti con il sottodimensionamento degli organici di ospedali e centri di assistenza o con la penuria di sangue per le trasfusioni, alle famiglie con disabili gravi, anziani non autosufficienti e malati di Alzheimer, bloccate a casa o respinte in alberghi e centri–vacanze perché “non gradite”.Certo, le vacanze estive – in un Paese nel quale non esiste una programmazione intelligente delle chiusure aziendali e anche nel settore pubblico si verificano clamorose scoperture – rappresentano per chi sta male un periodo di particolare difficoltà. E sono ancora troppo rare le iniziative degli enti locali per interventi di assistenza e pronto intervento nelle aree di maggiore precarietà, a sostegno e integrazione delle tante esperienze gestite con coraggio, dalle associazioni di malati, dal volontariato laico e, soprattutto, cattolico, dalle parrocchie e dai gruppi di mutuo–aiuto, che costituiscono in molti casi l’unica ancora di salvezza per tante famiglie.L’emergenza estiva e l’attenzione, sia pure debole, che in questo periodo viene richiamata dalle situazioni più gravi, dovrebbero stimolare una presa d’atto più consapevole del peso sociale e morale del dramma delle cronicità e della non autosufficienza in una società che invecchia. Il recente Rapporto sulla non autosufficienza del Ministero del Welfare ha ben delineato la situazione dal punto di vista economico e strutturale nell’ambito delle politiche sociali: 2 milioni e 600 mila disabili sopra i 6 anni (di cui 2 milioni di ultra65enni) e 200mila sotto i 6 anni (Istat 2007); un’assistenza basata in gran parte sulla famiglia, sui cosiddetti badanti, maschi e femmine (retribuiti in proprio) e sul volontariato; uno sbilanciamento pesante degli interventi pubblici italiani, di gran lunga inferiori a quelli di altri Paesi europei, a favore di quelli monetari (assegno di accompagnamento e di cura), che costituiscono il 42 per cento della spesa complessiva; una carenza grave nell’ambito dell’assistenza domiciliare professionale (solo un quarto della spesa complessiva), soprattutto al Sud; un ricorso eccessivo a ricoveri (spesso impropri) in ospedale. Ma molte delle questioni sollevate in quel rapporto rimangono senza risposta, nonostante le esperienze positive realizzate in alcune zone del Paese e i tanti dati raccolti sul tema negli ultimi anni, tra cui ad esempio quelli del Censis sui costi sociali, diretti ed indiretti, dell’Alzheimer (60mila euro per malato, e per anno, nel 2006).Sembra sfuggire, soprattutto, la necessità di una declinazione completa e adeguata del concetto di “servizio alla persona” nella sanità e nell’assistenza. E invece la prima priorità dovrebbe essere proprio quella del disagio materiale e immateriale dei malati soli, dei cronici, dei disabili e delle loro famiglie, e dei costi umani e sociali che ne derivano. Riorientare il sistema di offerta sulla persona e sulla sua famiglia significa, per esempio, attuare davvero – e a tutti i livelli – la tanto spesso evocata umanizzazione dei servizi: dal rapporto interpersonale tra operatore e malato, alla riorganizzazione dei servizi stessi (evitando duplicazioni, rigidità, ritardi...) e della politica sociale nel suo complesso. È davvero inaccettabile un sistema di assistenza che limita di fatto la propria umanizzazione alle aree e alle situazioni in cui svolgono un prezioso lavoro di testimonianza e di “supplenza” realtà come la Caritas, Sant’Egidio o la Fondazione Di Liegro. Tanto più se questo sistema continua a tollerare al proprio interno sprechi e lacune.