Opinioni

La base Nato . Ebola, i marines e il Veneto: umanità in quarantena

Antonella Mariani giovedì 30 ottobre 2014
La quarantena? Se la facciano a casa loro. Più chiaro di così, il governatore del Veneto Luca Zaia non poteva essere. E pazienza se i militari americani rientrati dalla Liberia stanno benissimo e non presentano alcun sintomo del temutissimo virus ebola, anche perché in Africa ci sono andati, nell’ambito di una operazione umanitaria internazionale, per costruire ospedali e non per curare malati. Chiusi per le prossime tre settimane in una stanza sigillata della base Setaf, nella caserma Ederle di Vicenza, gli 11 americani obbediscono a un protocollo ultra precauzionale, studiato per tranquillizzare, non per spaventare la popolazione. Ma Zaia lo dice «in amicizia» e, per non sbagliarsi, lo chiede ufficialmente anche al premier Renzi, perché è anche una questione di rispetto «per il popolo italiano e per i veneti». Quindi tutti avvisati: se un cittadino straniero (non sia mai, un africano, ad esempio) si scoprisse ammalato di ebola in Veneto – apriti cielo – farebbe bene a tornarsene al paesello suo a farsi curare. Ma ecco, parliamo di rispetto: i cittadini hanno bisogno di essere rassicurati sull’efficienza della prevenzione e delle eventuali cure, non messi inutilmente in allarme.  Di episodi di caccia agli untori di ebola, pur non avvertendosene la necessità, ce ne sono già stati: la bimba reduce da un viaggio in Africa tenuta fuori dall’asilo di Fiumicino da un gruppo di mamme «spaventate» diventato branco; il nigeriano colto da malore e morto dopo essere rimasto per 50 minuti senza soccorsi nell’aeroporto di Madrid. Episodi in cui si è messo in quarantena (speriamo non perso del tutto) il senso della misura, della realtà e dell’umanità. Nelle stesse ore in cui il governatore Zaia esternava – subito rinfocolato dal sindaco di Padova Massimo Bitonci, già passato alle cronache nazionali per aver sollecitato un «certificato di buona salute» per chi entra in Italia – il Papa da piazza San Pietro esprimeva «affetto» per quanti «si prodigano eroicamente per soccorrere questi nostri fratelli e sorelle ammalati» e ha chiesto di nuovo alla comunità internazionale di compiere «ogni necessario sforzo per debellare questo virus». Non ha parlato di frontiere o di quarantene, solo di «fratelli ammalati». Sguardi diversi. Nel caso di Vicenza, poi, ci sono sì, i fratelli e le sorelle che si prodigano. Ma non ci sono nemmeno i malati.