Chiunque abbia dimestichezza con le trattative sindacali sa che di accordo si può parlare solo un secondo dopo la firma e mai neppure un minuto prima. L’entusiasmo con cui ieri mattina si salutava l’intesa sulla riforma del lavoro – quasi fosse già cosa fatta – era dunque assai prematuro. E infatti sono bastate poche ore perché prima la Cgil, poi la Confindustria, quindi i piccoli imprenditori ribadissero – ognuno dal proprio punto di vista – che «no, così ancora non va» e che «la strada per arrivare alla riforma rimane lunga». Sgombrato il campo dagli slanci prematuri, allora, si può tentare di cogliere alcuni segnali per comprendere se, di qui alla scadenza del 23 marzo indicata dal governo, sia effettivamente possibile condurre in porto la trattativa. Il primo – e più importante – è che, nonostante qualche pregiudiziale e perentorio cinguettìo, tutti gli argomenti in discussione (compresa la famosa “flessibilità in uscita”), hanno conquistato diritto di cittadinanza nel dibattito e non risultano più esclusi a priori, non scatenano ordalìe al solo nominarli, come invece accaduto in passato. Lo stesso emergere di una dialettica interna alla Cgil – che pure resta contraria a interventi “pesanti” – su una “manutenzione” dell’articolo 18 dello Statuto testimonia (finalmente) di un cambio di atteggiamento, che potrebbe tradursi in un qualche avanzamento. Si può infatti mantenere saldo il principio originario della tutela del reintegro contro i licenziamenti discriminatori e insieme eliminare le troppe rigidità che si sono stratificate nella giurisprudenza, nel caso dei provvedimenti per motivi disciplinari o economici. Merito anche della capacità della Cisl di sedere ai tavoli di trattativa con chiarezza d’idee, disponibilità e fantasia riformatrice. Il secondo segnale è la volontà condivisa di drenare la palude della precarietà, quella che imprigiona i giovani nelle sabbie mobili. Operazione non scontata, perché è necessario filtrare le scorie degli abusi, lasciando però l’acqua pulita della flessibilità necessaria. Rispetto alle ipotesi emerse nella proposta governativa, le imprese lamentano – non senza ragioni – un forte appesantimento in termini di burocrazia e di costi, tale forse da far calare le opportunità d’impiego, quantomeno in una prima fase. Anche in questo caso, è positivo però che rispetto ai tanti proclami iniziali non ci sia la volontà di brandire l’accetta, abbattendo le forme contrattuali, ma di agire con il bisturi della normativa e dei controlli. In maniera più pragmatica che ideologica. Il fatto poi che tutti i soggetti abbiano riconosciuto all’apprendistato la funzione di contratto–principe per l’ingresso dei giovani e che si prospetti una ristrutturazione degli ammortizzatori “morbida” e “lenta” per oltrepassare questi anni di crisi, testimonia di una ritrovata consapevolezza. Al netto di qualche dichiarazione critica, l’esito del vertice di giovedì sera con i leader dei partiti di maggioranza dice che il governo ha le spalle coperte e in Parlamento non dovrebbe mancare il sostegno alla riforma. Soprattutto se ci si arriverà senza strappi con le parti sociali, senza percorrere la via solitaria del decreto, come accaduto in Spagna e come alcuni hanno più volte auspicato anche da noi «per superare tutti i veti». Le tensioni scaturite, e gli aggiustamenti resisi necessari dopo la riforma accelerata delle pensioni, consigliano di imboccare una strada diversa. Manca da percorrere l’ultimo miglio, quello più difficile e delicato. Per certi versi, il migliorare della situazione finanziaria, con lo spread in costante calo, non aiuta. Perché abbassa la pressione sugli attori della trattativa. Ma a ben vedere, proprio lo stare un passo indietro rispetto all’orlo del baratro rende più facile decidere evitando i passi falsi. E affermare, così, la svolta di un Paese capace di ri–tarare il “mercato” del lavoro senza scontri ideologici. In maniera condivisa, badando a ciò che più conta: l’inclusione delle persone e, in particolare, dei giovani.