Sono passati dieci anni esatti fra le due conferenze di Bonn sull’Afghanistan. Nel mezzo, un decennio che ha mutato i rapporti di forza geopolitica nel mondo e visto franare gli ambiziosi progetti degli Stati Uniti nel grande Medio Oriente, travolti dal disastro iracheno e dalla terribile crisi economica di questi anni. E certamente sarebbe solo auto-consolatorio considerare come un successo l’impegno internazionale in Afghanistan avviato proprio dalla prima conferenza di Bonn, tenutasi dopo gli attentati di Washington e New York e la conseguente cacciata dei taleban da Kabul.
Allora vi erano grandi – anzi, eccessive – speranze di pacificare quel martoriato Paese e di farvi radicare la democrazia e la pacifica convivenza fra le diverse comunità etniche.Oggi, dieci anni dopo, le aspettative sono molto più dimesse. Non siamo riusciti ad aver ragione dei taleban, i quali anzi sembrano essere progressivamente divenuti più forti e determinati. Lo stato continuo di insicurezza ha, è ovvio, influito negativamente sull’opera di ricostruzione e di sviluppo economico, tanto che l’Afghanistan di oggi dipende letteralmente dagli aiuti stranieri per sopravvivere. I concetti di democrazia e di buon governo sembrano stridere con i massicci brogli elettorali che hanno contraddistinto le elezioni a Kabul, con i troppi personaggi impresentabili che siedono in Parlamento (ex mujaheddin, capi tribali, narcotrafficanti) e con il livello spaventoso di corruzione che il governo del presidente Karzai promette sempre di combattere, ma che in realtà contribuisce a generare.Anche a livello regionale non siamo andati lontani: Washington non ha mai voluto coinvolgere l’Iran nella stabilizzazione dell’Afghanistan, neppure negli anni in cui a Teheran vi era un governo moderato e riformista; la Cina continua a fare meno di quanto potrebbe per sostenere lo sforzo multilaterale, ossessionata com’è da una politica bilaterale che porti vantaggi politici diretti a Pechino. Ma l’elemento più negativo è quello del Pakistan, il Paese chiave per stabilizzare la regione. È dal Pakistan che si muovono tanto i taleban quanto i jihadisti islamici di matrice wahhabita che tentano oggi di scatenare un conflitto fra sunniti e sciiti afghani. Sono pachistani i servizi segreti militari (l’Isi) che conoscono quasi ogni segreto dei taleban, ma che in questo decennio hanno sempre assunto un profilo ambiguo (e siamo indulgenti) con la Nato.
Senza il Pakistan non si fa la pace con i taleban, si dice. L’assenza di Islamabad dal vertice di Bonn è quindi particolarmente grave, e riflette sia le tensioni con gli Stati Uniti sia la difficoltà nelle estenuanti trattative per un accordo di pace fra il governo di Karzai e la galassia di insorti.
Con un quadro così deprimente vi era allora il rischio che la comunità internazionale si orientasse verso un disimpegno radicale, un volta completato il ritiro dei contingenti militari nel 2014. Una prospettiva inquietante per la popolazione e per lo scenario di sicurezza regionale. Così non è stato: nonostante le delusioni e l’irritazione per la corruzione e il mal governo, abbiamo promesso aiuti fino al 2024. È una strada obbligata, come ha ricordato il nostro ministro degli Esteri, Giulio Terzi, rivendicando con orgoglio i tanti sforzi fatti dall’Italia. Proprio la prossima fine dell’impegno militare diretto della Nato può favorire il rilancio della cooperazione con i Paesi della regione. Senza il loro sforzo per una vera pacificazione – e senza la volontà di Kabul di cambiare passo in tema di buon governo – il nostro impegno non potrà – qualunque sia – che dare frutti rachitici. Per gli attori locali è ora di mettere da parte gretti calcoli nazionalistici e vecchi giochi di potere. Dal fallimento internazionale, a rimetterci, sarebbero proprio loro: l’Afghanistan e i suoi ambigui vicini.