Opinioni

Analisi. Catastrofe umanitaria a Gaza, ultima chiamata per la tregua

Riccardo Redaelli venerdì 7 giugno 2024

È probabilmente l’ultima chiamata. Non per ottenere la pace – che sarebbe illusione fin troppo temeraria – ma almeno per fermare il massacro di civili a Gaza e far tacere le armi. Tutti i precedenti tentativi di giungere a una tregua sono finora falliti, per ragioni spesso di miserabile calcolo politico da entrambe le parti in guerra. Ora il Presidente statunitense Joe Biden ha buttato tutto il proprio peso politico e impegnato la propria autorevolezza per sostenere una proposta di armistizio che possa accontentare tanto il governo israeliano quanto l’ala politica e quella militare di Hamas.

Quello di Biden è un tentativo generoso, quand’anche motivato dalle necessità delle incombenti elezioni negli Stati Uniti, con una proposta articolata e step-by-step, ossia progressiva e incrementale basata su tre fasi distinte, che suona bilanciata e credibile. Se i vertici politici di Israele e di Hamas avessero a cuore le sorti dei loro popoli, non vi sarebbe dubbio alcuno: avrebbero già sottoscritto il piano americano. Ma l’amara verità è che tanto gli uni quanto gli altri hanno come loro primario interesse quello di sopravvivere politicamente al disastro che hanno contribuito a creare; nel caso dei vertici militari di Hamas, in particolare per Yahya Sinwar, la sopravvivenza è anche fisica.

E quindi è ripreso il balletto dei rinvii, dei distinguo, dei caveat, tanto più indegno dato che viene fatto sui corpi dei civili palestinesi e dei soldati israeliani uccisi ogni giorno, sulla tragica incertezza circa la sorte degli ostaggi, così come sulle rovine delle case e delle infrastrutture distrutte. Hamas non accetta di rilasciare gli ostaggi ancora in vita se il governo Netanyahu non si dice disposto a fermare definitivamente il conflitto.

Ma il governo di ultra-destra di Tel Aviv non rinuncia alla sua idea, tanto sbandierata quanto imprecisata, di “distruggere” Hamas. Un obiettivo apparentemente chiaro, ma in realtà ambiguo: Hamas è una ideologia, non solo un movimento, e più continua la guerra più aumentano i palestinesi che radicalizzano il loro odio contro Israele. Nella sua retorica, il governo israeliano rivela la volontà di continuare indefinitamente questa guerra, perché sa che fermatesi le armi, sarebbero inevitabili nuove elezioni, che vedrebbero la sconfitta assai probabile del premier Netanyahu e dei suoi alleati di estrema destra. Non è un caso che lo stesso presidente Biden abbia ammesso che vi sono ragioni politiche nel voler continuare la guerra da parte del governo israeliano.

Allo stesso tempo Hamas cosa può dire ai milioni di palestinesi di Gaza che hanno perso genitori, coniugi, figli, che hanno visto le loro case e la loro vita devastate dalla reazione israeliana ai crimini orrendi compiuti il 7 ottobre 2023? Come presentarsi se non con il “trofeo” di una guerra fermata senza essere stati spazzati via come promesso, con troppa sicumera, dalle forze armate dello stato ebraico? Rimanere un attore con cui mediare significa per essi poter dire di “aver vinto”, pur se sulla pelle di decine di migliaia di loro connazionali, sperando che nel frattempo esploda la frontiera a nord, con uno scontro aperto contro Hezbollah, così che gli israeliani si debbano concentrare sul fronte opposto. E così entrambi, nei fatti, boicottano l’ultimo tentativo di porre fine a questa catastrofe umanitaria, rilanciando richieste che sanno essere impossibili: da un lato fermare a tempo indefinito la guerra da subito, non come obiettivo di arrivo di un percorso a fasi ma come precondizione; dall’altro la volontà di riprendere le armi una volta ritornati gli ostaggi a casa. Come si può pensare, ha detto l’ex primo ministro laburista israeliano Ehud Barak, di dire al capo militare di Hamas, Sinwar: « Fai in fretta ad accettare, perché poi dobbiamo ucciderti appena ci avrai ridato gli ostaggi?»

È allora tempo di essere più duri. Con Hamas già lo siamo e non dobbiamo offrire spiragli a questo truce movimento, ma ancora siamo troppo blandi non con Israele, a cui deve andare la nostra amicizia e solidarietà, ma con il suo pessimo governo: se Netanyahu boicotterà ancora una volta la speranza di una tregua per i suoi cinici calcoli politici e per rincorrere la parte più radicale del proprio elettorato, allora l’Occidente dovrà ripensare le sue strategie politiche.