La guerra. Ucraina, quel treno carico di 600 anziani: non sono vuoti a perdere
Strelecha, un villaggio nell’oblast di Kharkiv, sulla linea del fronte. Colpi di cannone, raffiche di mitra, truppe che avanzano o indietreggiano: si muove ogni giorno quel rovente confine fra Ucraina e Russia. Ma proprio lì, in un istituto, erano rimasti in 600. Pazienti psichiatrici e malati di demenza o di Alzheimer. E anche forse qualche vecchio abbandonato dai suoi, confuso, che non si sapeva dove portare, ed era finito lì. Strelecha è liberata dagli ucraini a metà settembre. I seicento vengono portati a Kharkiv, ma l’ospedale non può reggere tanti pazienti. Allora il governo ucraino chiede a Medecins sans frontieres di utilizzare il treno che da mesi la Ong usa per il trasporto dei feriti, per condurre i 600 all’ospedale Kiev.
Due giorni fa sono arrivati: sono, relativamente, al sicuro. Ma proviamo a immaginarci questo incredibile viaggio, 600 chilometri su un treno che marcia adagio, e al buio forse di notte, per timore dei bombardamenti. Un treno gremito, ogni posto occupato, un treno che riecheggia di lamenti, e pianti, e deliri. I medici si affannano tra un vagone e l’altro. Chi ha sete, chi è ferito, chi – tanti – nemmeno sa il suo nome. Alzheimer, demenza, estrema vecchiaia: uomini al termine, vite – si comincia a pensare anche in Occidente – tanto consunte da non essere più davvero "vite".
Vuoti a perdere, insomma. E per seicento uomini e donne così marcia un treno nella guerra ucraina, verso Kiev? Un treno, anzi, due, uno dopo l’altro. 12 ore per ciascun viaggio. Dodici lunghissime ore per trarre in salvo, tra le vittime di questa guerra, gli ultimi: i folli abbandonati in un manicomio alla frontiera con la Russia, affamati, anzi quasi morti di fame. Una foto del servizio di Marta Serafini sul sito del "Corriere" mostra un passeggero: la cannula dell’ossigeno e il disegno netto delle costole sul petto scarnito, sul tavolino medicine e un’immaginetta di devozione. Così, in seicento. Poveri Cristi dimenticati sull’orlo di un confine di odio. Affamati. Dopo il pasto, tutti a chiedere: "ancora", come bambini. Sì, poveri vecchi bambini. Perfino i russi li hanno lasciati partire (tanto non valevano nulla).
Ma immaginatevi, sul treno che marcia adagio verso Ovest, la folla dei pensieri di quegli uomini. Alcuni reclusi da trent’anni, psicotici inchiodati a deliri che nel trambusto del viaggio, come risvegliati, gridano angosce remote. Altri, e altre, scivolati con gli anni nella demenza: con quegli infantili occhi innocenti che tornano ad avere gli uomini quando hanno dimenticato tutto, quando non sanno più. E tra tanti, poi, anche qualcuno che, abbandonato dai suoi sotto le bombe, per pietà dai passanti era stato portato in quel manicomio. Lucido ancora dunque, nella indescrivibile pena di un treno di folli. (Lui, che era un riverito e temuto professore d’Università, lei, che, ragazza, cantava nei locali con la sua voce bellissima, e quell’altra accanto, che ha allevato sei figli, e pure è rimasta sola).
Come va adagio questo treno, sembra una tradotta militare. Forse lo è: riporta indietro i superstiti dall’ultimo fronte, grazie alla pietà e il coraggio di pochi. Scenderanno zoppi, o in barella, estenuati, chiedendo dove sono, o chiamando, come spesso accade ai dementi, la mamma. In quei convogli che quantità compressa di memoria, sofferenza, solitudine, paura (come farà Dio, a non dimenticarne una sola goccia?).
Ma, avremmo voluto vedere l’avvicinarsi lento del lungo treno tra gli scambi della stazione di Kiev, fino alla banchina. Quei fari tondi nella notte d’autunno. Fievole luce, però dentro una larga cappa d’ombra: tra tanta morte e ferocia, la scia quasi invisibile che lasciano gli uomini buoni.