Urbanizzazione. Tutto il mondo, un'unica città. La sfida? Renderla più vivibile
I mega-centri con oltre 10 milioni di abitanti erano 10 nel 1990 e oggi sono 47, di cui 32 in Asia e 4 in Europa. E ci si aspetta che nel 2050 il 66 per cento della popolazione mondiale si sarà accentrata
Da che mondo è mondo le città vengono fondate lungo corsi d’acqua: necessari per irrigare, utili per i trasporti e per eliminare i rifiuti. Ma la rapidità della crescita urbana a volte li trasforma in fogne a cielo aperto, pericolose per l’igiene. E l’urbanesimo oggi dominante – com’è noto, la popolazione mondiale urbana da anni ha superato quella rurale – genera squilibri soprattutto in Asia e Africa, perché, secondo Thomas Chiramba di UN-Habitat, il programma delle Nazioni Unite dedicato al miglioramento delle aree urbane, nei due continenti mancano programmi urbanistici e lo sviluppo industriale non è sufficientemente controllato. Come mai dunque in tanti migrano verso le città, se poi trovano un ambiente poco salubre? «È la speranza che spinge le persone – spiega Francesca Zajczyk, ordinaria di Sociologia urbana all’università Milano Bicocca –. In città si trovano opportunità di lavoro stabile, attraente per chi desidera sfuggire all’aleatorietà della campagna, dove i raccolti sono subordinati ai capricci del tempo. Le persone cercano un futuro migliore per sé e per i figli. Può apparire paradossale: laddove le città crescono rapidamente, è la stessa pressione demografica a deprimere la qualità della vita». Nelle città ci sono servizi che altrove mancano: ospedali, scuole, mercati, tutto è vicino. L’urbanesimo non si fermerà, malgrado i dubbi che suscita in alcuni, compreso il fatto che sia un habitat favorevole alla criminalità. «Si pensi alla Chicago della mafia o alla manovalanza criminale recentemente importata in Italia da alcuni Paesi dell’Est – continua Zajczyk –. Ci si chiede anche se la densità non prepari la morte delle stesse città. Ma sempre queste si rinnovano, e migliorano col tempo».
Nel Belpaese il fenomeno è noto da secoli. Tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento Roma è passata da poco più di duecentomila abitanti a quasi tre milioni; Milano da meno di trecentomila a oltre un milione, più o meno come Napoli. La crescita maggiore è stata una conseguenza dell’industrializzazione nel secondo dopoguerra, quando in Europa è cominciato il periodo più lungo di pace e prosperità. Sono sorte allora le grandi conurbazioni, tanto che a metà degli anni Sessanta l’urbanista greco Costantinos Dioxadis coniò il termine «ecumenopoli» per designare quella che ravvisava come tendenza inarrestabile: tutto il mondo sarebbe diventato un’unica città. Anche grazie alle prime fotografie dallo spazio, si constatava il dilagare urbano tra Londra, Parigi, la Ruhr, lungo l’arco ligure e della Costa Azzurra, nella Valle Padana. Intanto Tokyo diventava la maggiore conurbazione al mondo: oggi tocca i quaranta milioni di abitanti. E c’è il caso della Cina: a fine Novecento nelle sue campagne era impegnata quasi la metà dei lavoratori (un tasso non dissimile da quello dell’Italia del secondo dopoguerra) ma già nel 2011 vi restava solo il 3 percento. Nel frattempo sorgevano aree urbane sconfinate: la circonvallazione esterna di Pechino è lunga circa circa mille chilometri e la conurbazione tra Hong Kong e Macao si avvia verso i sessanta milioni di abitanti. L’urbanesimo, almeno nei suoi primi anni, si associa all’inquinamento: in Cina all’inizio del nuovo millennio è giunto a livelli insostenibili, ma sembra cominciare a ridursi. Zsuxin Xu, docente di Scienze e ingegneria dell’ambiente nell’università Tongji, nel corso di un recente incontro sul tema dell’inurbazione svoltosi a Nairobi, ha dimostrato che in Cina è stata risanata la maggior parte dei corsi d’acqua urbani, costruendo reti fognarie e differenziando tra acque pulite e reflue.
Sono soluzioni note, da tempo date per scontate in Europa, dove oggi si aggiungono altri accorgimenti per migliorare anche la qualità dell’aria. Il modello di sviluppo urbano segue ovunque lo stesso andamento: una prima epoca di crescita disordinata con periferie povere, igiene carente, inquinamento, mancanza di infrastrutture e servizi. Anche nella prospera Londra della prima industrializzazione, a inizio ’800, l’inquinamento era fortissimo (nasce lì il termine smog, smoke e fog, fumo più nebbia) e diffusi erano gli slum: è la città descritta da Charles Dickens in "Oliver Twist", non molto diversa dalla Parigi dei "Miserabili" di Victor Hugo. Poi si costruiscono infrastrutture, si aprono parchi, migliora l’ambiente.
Per il 2050 ci si aspetta che il 66 percento dei circa 8 miliardi di persone della popolazione mondiale vivrà in città. E aumenterà ancora il numero delle megacittà, come sono definite quelle con più di dieci milioni di abitanti: se nel 1990 erano una decina, già nel 2018 sono diventate 47. Di queste trentadue sono in Asia (includendovi Istanbul), cinque in America del Sud, quattro in Europa (Mosca, Parigi, Londra e la conurbazione della Ruhr), tre in America del Nord (tra cui Città del Messico).
L’urbanizzazione dunque non si fermerà. Anche perché pure il lavoro dei campi, non solo quello industriale, sarà sempre più automatizzato. Come ha scritto D.K. Sreekantha, docente allo NMAM Institute of Technology di Udupi, in India: «L’internet delle cose sta cambiando il volto dell’agricoltura. Permette di ottenere da distanza informazioni sul tempo, l’umidità, la temperatura, la fertilità del suolo, la crescita dei raccolti e l’eventuale presenza di parassiti». Tramite droni è possibile condurre la semina e sorvegliare le piantagioni, e tutte le macchine agricole possono essere teleguidate: «Basta uno smartphone per controllare l’andamento di una fattoria, dovunque ci si trovi». In prospettiva, l’agricoltura non richiederà lavoratori residenti in campagna.
Ma si affacciano altre sfide, nelle quali l’Europa fa da apripista nel cercare soluzioni innovative. Per esempio, il problema dell’identità che, nel rapporto tra luoghi e persone, risulta minato dall’incalzare della globalizzazione. Ne ha parlato, sempre a Nairobi, l’urban designer Joseph Di Pasquale: «Lo sprawl (il dilagare del tessuto urbano sino a formare un tutto ininterrotto tra abitati un tempo separati, ndr) è una novità assoluta nella storia: l’antitesi tra nuclei urbani e campagna viene meno e si genera una polverizzazione del costruito che consuma suolo senza generare città. Quest’anomalia è all’origine dei disagi sociali più diffusi: l’assenza di identità urbana genera assenza di identità sociale. I non-luoghi generano non-persone. Occorre far evolvere il modello urbano: da centrico o policentrico verso un modello a "rete". La rivoluzione digitale porta in questa direzione: nascono nuovi modelli relazionali. Lo stesso sta per avvenire anche alla città. Non più un centro o molti centri, ma una rete di centralità diffuse. Questo significherà portare la città in campagna, ma anche la campagna in città».
Lo sviluppo di giardini sulle coperture degli edifici, delle facciate verdi, della coltivazione urbana sta già prefigurando in tante metropoli un nuovo modello di vita: urbana e campestre assieme. Per quanto le stime varino, anche di molto, ancora si parla solo di una porzione limitata della crosta terrestre occupata dall’uomo: forse non tanto in Europa, ma in giro nel mondo ci sono ancora parecchi spazi liberi. Occorrerà preservarli e contemporaneamente rendere sempre meglio vivibili le zone urbanizzate. Perché, migliorando gli ambienti di vita, si migliorano anche le relazioni umane che in quegli spazi si attivano.