L'analisi. Tutti ora chiamano l’Onu: il problema è chi e che cosa
Proviamo a considerarli. Già per il precedente intervento in Libia, quello che portò all’abbattimento del regime di Gheddafi e che è all’origine della presente anarchia, vi fu una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu. Come si ricorderà, Francia e, in misura minore, Gran Bretagna ottennero, con il riluttante avallo americano, l’autorizzazione del Cds a istituire una "No-fly zone" sui cieli libici per fermare i bombardamenti delle forze aeree del rais contro gli insorti "democratici". Russia e Cina accettarono molto a malincuore una misura che credevano sarebbe stata analoga a quella adottata nel Kurdistan iracheno nel 1991, volta a impedire i raid degli aerei di Saddam Hussein contro la popolazione civile curda. Le potenze occidentali, cui si aggiunse il Qatar, interpretarono invece in maniera estensiva l’autorizzazione (in realtà esasperandone lo spirito fino a distorcerlo sostanzialmente), e avviarono un’intensa campagna di bombardamenti che portarono alla distruzione dell’esercito fedele al colonnello. A fronte di un simile precedente è pressoché certo che né la Cina né la Russia né probabilmente diversi dei membri temporanei del Cds concederebbero mai una "replica" del 2011. Cioè, l’eventuale autorizzazione a un’azione militare dovrebbe fissare molto esplicitamente gli obiettivi e le modalità consentite.
Occorre poi ricordare che, dal 2011, i rapporti con la Russia sono drasticamente peggiorati, in particolar modo in conseguenza della crisi ucraina, che vede i Paesi occidentali schierati solidalmente a fianco del governo di Kiev e contro la Russia di Putin e i suoi protetti. Non ci sarebbe niente di sorprendente se Mosca cercasse di barattare il via libera alle operazioni militari in Libia in cambio di un atteggiamento diverso sull’Ucraina. Ma è difficile immaginare che Washington, Berlino, Parigi e Londra si possano prestare a una simile operazione. Molto arduo quindi che l’autorizzazione all’uso della forza passi in Cds. A meno che la proposta non fosse apertamente patrocinata da un pool di governi arabi, capitanati dall’Egitto e dall’Algeria, magari in grado di ottenere nel frattempo il sostegno della Lega araba, nonostante la prevedibile opposizione del Qatar (che appoggia il governo "decaduto" e islamista di Tripoli e non quello legittimo e "laico" di Tobruk). Di fronte alla prospettiva di un corpo di spedizione arabo (qualcosa di simile alla Forza araba di dissuasione che intervenne nella guerra civile libanese nel 1978), potrebbe essere più difficile per russi e cinesi opporre un veto, tanto più nella consapevolezza che quest’ultima potrebbe operare anche in assenza di un’autorizzazione dell’Onu (si pensi alla forza creata dall’Unione africana per fronteggiare il caos somalo). Il possibile costo di una simile opzione potrebbe però essere la maggiore difficoltà di una partecipazione occidentale alla campagna, con conseguenze sulla sua efficacia e sulla sua rapidità, oltre che sui suoi esiti politici.
Ma torniamo all’ipotesi di una disposizione favorevole da parte dell’Onu. Nel caso del coinvolgimento di Paesi occidentali, le strutture e gli asset normalmente assegnati alla Nato dovrebbero essere impiegati, a partire dalle forze aeronavali, ma con il possibile invio di truppe di terra. Nella campagna del 2011 l’intervento americano fu meno evidente del solito ma risolutivo come sempre in termini di potenza di fuoco. Altrettanto dovremmo aspettarci in questo caso. Ma l’America è già piuttosto esposta nel Levante e in Europa orientale. Il presidente Obama ha appena ottenuto dal Congresso l’autorizzazione a un impiego prolungato (tre anni) della forza per combattere lo Stato islamico in Iraq e in Siria. Siamo sicuri che potrebbe fornire un contributo significativo anche in Libia? Ovviamente sì, dal punto di vista tecnico; ma la risposta politica è molto meno scontata. Oltretutto, Paesi che sia pure tiepidamente appoggiano la coalizione anti-Isis nel Levante (come la Turchia e il Qatar) sarebbero risolutamente contrari in Libia.
C’è infine la questione più controversa: che tipo di intervento, e finalizzato a fare che cosa? Su questo occorre essere cristallini. Se lo scopo dell’intervento è quello di coronare un’iniziativa politico-diplomatica volta ad aiutare i governi arabi amici a spazzare via l’Isis dalla Libia, stiamo parlando di un’azione molto "combat", per utilizzare il gergo Nato. Qualcosa di più simile, tanto per capirci, alla campagna del 1990/91 contro Saddam Hussein, in seguito all’invasione del Kuwait, che non a quella di Isaf in Afghanistan. Si tratterebbe di una campagna che necessariamente vedrebbe un elevato numero di vittime (di necessità anche tra i civili), che coinvolgerebbe un numero elevato di truppe (oltre le 60.000) e che avrebbe una durata indefinibile al momento, ma certamente lunga. Ovviamente, la Libia potrebbe essere presidiata successivamente da un contingente esclusivamente arabo, ma difficilmente l’Occidente potrebbe lavarsene le mani, come fatto dagli anglo-francesi dopo il 2011/2012.
Concludendo in una prospettiva tutta italiana, la sola certezza è quella della validità e della professionalità dello strumento militare nazionale. Mentre, come già si è capito dalla confusione di questi giorni, vi sono interrogativi sulla volontà e capacità politica di sopportare lo stress che la decisione di "non girare la testa dall’altra parte" oggettivamente comporterebbe., anche nel caso di una risoluzione dell’Onu, che renderebbe perfettamente legittimo, dal punto di vista costituzionale, la partecipazione italiana alla forza multinazionale.