Opinioni

L’inevitabile evoluzione dell’«ars celebrandi». La liturgia che evangelizza

Stefania Falasca sabato 7 marzo 2015
​«Che cosa stiamo facendo? Questo è il momento delle riflessioni». Con queste parole il 7 marzo di cinquant’anni fa Paolo VI inaugurava la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e le chiese del mondo. E per celebrare personalmente la prima Messa in italiano scelse non la basilica di San Pietro ma una parrocchia, quella di Ognissanti sulla via Appia, nell’estrema periferia di Roma, tanto lontana allora da essere denominata «la Patagonia romana». Entrava ufficialmente così la lingua parlata, la lingua familiare nel culto liturgico, per rendere omaggio alla maggiore universalità della Chiesa, per rendere comprensibile la Parola di Dio e la preghiera, per rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli in un risvegliato senso della comunità, per arrivare a tutti. «È il bene del popolo che esige questa premura, è un grande avvenimento» disse Paolo VI rivolgendosi vis-à-vis al popolo di Dio «che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo». Ed è certamente un gesto significativo quello che papa Francesco compie oggi celebrando la Messa proprio sul luogo e nel giorno della prima Messa in lingua vernacola celebrata dal predecessore Paolo VI, che ha segnato una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa. È un suo personale e insieme pubblico atto di riconoscimento dell’importanza del rinnovamento liturgico scaturito dal Vaticano II.
Se infatti il Concilio si era concluso con il recupero di quell’oralità che sembrava essere stata esiliata dalla Chiesa, ritornare alla lingua parlata dopo tanti secoli significava risalire alle fonti, significa fedeltà al Vangelo. «Il Concilio è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea», afferma Francesco. «Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta». «Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità», tuttavia, afferma ancora Francesco «una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata all’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile». Non solo è assolutamente irreversibile, ma anche assolutamente necessaria considerata in tutta la sua ampiezza l’opera che Francesco sta compiendo in questo senso, a cominciare dalle Messe quotidiane a Santa Marta. Un’opera di evangelizzazione che vede al centro la proclamazione e l’annuncio della Parola di Dio e la bellezza della liturgia. Perché «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia… l’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene» scrive nell’Evangelii gaudium.Se dunque la presenza di papa Paolo VI a Ognissanti esprimeva il desiderio del vescovo di Roma di celebrare e pregare insieme al suo popolo, secondo una modalità rituale che era frutto dalla riforma liturgica, papa Francesco, con la sua presenza in questa circostanza, intende sottolineare il significato di quell’avvenimento ecclesiale per invitare a valorizzare, sulla scia tracciata dal suo predecessore, la forza evangelizzatrice della liturgia per la Chiesa di oggi.
In questi cinquant’anni sono stati compiuti grandi passi, ma tutto ciò che fu predisposto non sempre è stato attuato. Per Francesco perciò «è necessario unire una rinnovata volontà di andare avanti nel cammino indicato dai Padri conciliari, perché rimane ancora molto da fare per una corretta e completa assimilazione della Costituzione sulla Sacra liturgia da parte dei battezzati e delle comunità ecclesiali», come aveva rilevato nel febbraio dello scorso anno nel messaggio al simposio sulla Sacrosantum Concilio. E riferendosi proprio «all’impegno per una organica formazione liturgica, tanto dei fedeli laici quanto del clero e delle persone consacrate» ha rimarcato quanto resti ancora un grande lavoro da compiere: aiutare i fedeli a entrare profondamente nell’esperienza di quello stupore dell’incontro con Cristo, che si realizza nella liturgia. Ed è quanto Francesco evidenzia non solo nell’Evangelii gaudium ma anche i suoi interventi sull’Ars celebrandi e "l’Ars dicendi" sui cui ha portato a riflettere anche nel recente incontro con il clero romano. L’indomani della riforma liturgica il futuro Giovanni Paolo I scriveva ai suoi preti: «Alcuni non hanno capito che la riforma della liturgia è qualcosa di profondo, destinato a far crescere il popolo di Dio nella fede, nella speranza e nella carità e a rivelare agli uomini il volto di una Chiesa sempre più giovane. Non hanno preparato la gente con catechesi pazienti; non hanno spiegato il significato e la bellezza dei gesti nuovi. Hanno chiesto ai fedeli una partecipazione qualsiasi… è accaduto così che talora c’è stato non il fare vera liturgia, ma quasi un esibirsi col pretesto della liturgia, oppure un cercare nella liturgia soddisfazione estetiche… Poi ci sono alcuni che non accettano il Concilio, quindi rifiutano la liturgia che delle disposizioni conciliari è anima, perché – di sua natura – afferra tutto l’uomo. Altri confondendo la tradizione con il conservatorismo, non capiscono che il Signore, proprio perché è sempre presente alla Sua Chiesa, vuole che le forme secondarie del culto si adattino di continuo ai tempi e ai bisogni nuovi. Essi si appellano al passato, ma conoscono male il passato e la tradizione».
È quanto rilevava l’allora vescovo Luciani quarant’anni fa, ma non si distanzia di molto la realtà da oggi. «Ci sono poi questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto XVI sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione» ha affermato Francesco nella intervista a "La Civiltà Cattolica". Anche di recente nel colloquio con il clero ha toccato il tema del "rito tradizionale" con cui Benedetto XVI concesse di celebrare la Messa. Con il Motu Proprio Summorum Pontificum, pubblicato nel 2007, Ratzinger diede infatti la possibilità di celebrare la Messa secondo i libri liturgici editi da Giovanni XXIII nel 1962, fermo restando che la forma "ordinaria" di celebrazione nelle Chiese cattoliche rimanesse sempre quella stabilita da Paolo VI. Un gesto, questo – ha spiegato Francesco – che il suo predecessore, «uomo di comunione», ha voluto compiere per tendere «una mano coraggiosa ai lefebvriani e ai tradizionalisti», che avevano desiderio di celebrare la messa secondo l’antico rituale. Tuttavia questo tipo di Messa cosiddetta "tridentina" è una forma "straordinaria", non la forma "ordinaria", che è quella che è approvata dopo il Concilio Vaticano II. È una distinzione importante e, ordinariamente, quindi, si deve andare su questa strada. È noto che ci sono preti e vescovi che parlano di «riforma della riforma». Questo però è sbagliato, ha detto. Accade anche che ci siano alcuni nei seminari che dietro la fedeltà a questa liturgia di "rito tradizionale" «nascondono problemi psichici, psicologici». Si presentano come fedeli della Chiesa, ma possono nascondere squilibri che si manifestano proprio nella liturgia. Non è una prassi, ma ciò accade e bisogna fare discernimento. Ars celebrandi, dunque, non ars restaurandi. Sulla via aperta da Paolo VI.