Opportunità e problemi del made in Italy costiero. Turismo, pesca, porti e cantieri Il mare aspetta ancora l'estate
È un’estate uggiosa, quella che stiamo vivendo. L’autunno di luglio ha messo in crisi profonda il turismo di spiaggia, fra cancellazioni alberghiere, stabilimenti con presenze in calo anche del 70% e il mare che troppo spesso si è stati costretti a guardarlo dalla finestra. Già, il mare. Il mito delle vacanze, che raccoglie comunque il 30% delle presenze turistiche.E se chi ha finito le ferie torna deluso, c’è chi spera in un finale d’agosto da estate normale, per poterselo godere. Il mare, anche quello sotto casa. Perché per l’Italia il mare è 'scontato': ne sono bagnate 15 regioni su 20, interessa tre quarti dei nostri confini, 7.456 chilometri di costa. Un grande patrimonio naturale che ci regala paesaggi meravigliosi, orizzonti sconfinati, tramonti indimenticabili. Ma, proprio mentre il meteo impazzito ci fa sospirare bagni e tuffi, castelli di sabbia e chiacchiere sotto l’ombrellone, ecco che vale la pena riflettere su tutto quello che il mare rappresenta: la blue economy, che riguarda il turismo, certo, ma anche tanto altro. C’è la pesca e tutta la filiera ittica; ci sono i porti, la nautica, la cantieristica, l’industria delle estrazioni marine, la movimentazione di passeggeri e merci; e ancora le attività di studio e ricerca e tutto il mondo dello sport. Un universo variopinto. Che conta. E genera un valore aggiunto di 41,5 miliardi di euro (grazie all’effetto moltiplicatore del settore, considerando l’indotto, diventano 120) con un’incidenza sul totale del 3%, rileva il 3° Rapporto di Unioncamere sull’Economia del mare. È quasi il doppio di quanto prodotto – tanto per fare un confronto con un comparto molto forte del made in Italy – da tessile, abbigliamento e pelli (quasi 22 miliardi). Un pezzo di economia italiana che nel complesso, nel periodo 2009-2013, anche con la crisi, ha saputo dare importanti segnali di tenuta. Sul lavoro si è mosso in controtendenza: a fronte della perdita totale di 691.200 posti di lavoro (2,9%), l’economia del mare ha fatto segnare un incremento stimato di 24.300 unità (+3,1%). Lo stesso per le aziende: nel triennio 2011-2013 il tessuto imprenditoriale (costituito da circa 180mila imprese) è aumentato di 3.500 unità (+2% rispetto al -0,9% del resto dell’economia). «La blue economy – per dirla con il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello – è una risorsa che genera ricchezza, occupazione e innovazione secondo un modello collaborativo e sostenibile che può essere leva straordinaria per il rilancio dell’Italia». Un mare… di opportunità, dunque. Ma anche di problemi. Economici e normativi. Oltre che di governance. Onde che agitano le acque turchesi dei nostri litorali. Prendiamo i porti, molti dei quali in gestione commissariale, 'caselli' di autostrade del mare mai veramente avviate. L’Assoporti lancia da tempo segnali di allarme, chiedendo nuove regole che consentano di recuperare competitività, di realizzare nuove infrastrutture, di eliminare burocrazia e razionalizzare il ciclo logistico. «O si cambia o si alza bandiera bianca», è l’aut aut del presidente Pasqualino Monti. Guardando la cartina dei migliori porti europei disegnata da Eurostat, d’altra parte, è difficile non arrabbiarsi: la grande attività commerciale sta tutta a Nord. Non c’è neanche un nome italiano fra i primi dieci della classifica degli scali commerciali continentali. Eppure tutto lo stivale è un unico, grande porto: da Genova giù fino a Napoli e Gioia Tauro, passando per Palermo e Catania, e risalendo per Brindisi, Ancona, su fino Venezia e Trieste. Tutti in posizione ideale per veicolare i flussi mercantili nel Mediterraneo. Invece comandano Rotterdam e Anversa, i Paesi Bassi e il Belgio. Insieme hanno visto passare 560 milioni di tonnellate nel 2012. L’Italia nel suo complesso 499 milioni. C’è poi la pesca, costretta a difendersi dalle 'reti' della burocrazia europea. Un caso acceso riguarda l’attività con reti da traino: la Commissione ha chiesto formalmente a Italia e Spagna di conformarsi alle norme Ue sulla pesca nel Mediterraneo, adottando i piani nazionali di gestione che avrebbero dovuto essere avviati entro il 31 dicembre 2007. Una questione ancora aperta, mentre ci sono voluti 20 anni prima che l’Europa decidesse di chiudere formalmente l’infrazione contro il nostro Paese sulle reti da pesca derivanti, le cosiddette 'spadare', vietate nell’Ue, riconoscendo che negli ultimi tre anni l’Italia ha fatto «sforzi importanti per migliorare il quadro legislativo, rafforzando il controllo nella lotta contro questo fenomeno». Ci sono le difficoltà di tutto il settore nautico, che negli ultimi anni ha subito fortemente i colpi della crisi. Anche il 2013 si chiude con un segno meno: il fatturato globale è stato di 2,4 miliardi (-3% rispetto al 2012). Ma dovrebbe essere l’ultimo anno in negativo, dopo cinque cali consecutivi: l’Ufficio studi di Ucina, l’associazione di Confindustria che riunisce le imprese del settore, prevede per il 2014 una crescita del 5,5%. Che interessa purtroppo l’estero, considerato che il mercato interno risulta praticamente azzerato (nel 2103 solo il 7% della produzione cantieristica nazionale è stata destinata alle vendite in Italia). Per fare il punto sul settore si guarda al Salone Nautico di Genova (dall’1 al 6 ottobre) che prova a rilanciarsi, con un rinnovato fermento degli espositori (+20% di richieste al momento).I problemi non mancano neanche – oltre al meteo, s’intende – nel turismo balneare che soffre la competizione con gli altri mari, dalla Croazia alla Grecia, dalla Spagna e all’Egitto. Mete preferite per un migliore rapporto qualità/prezzo dai vacanzieri stranieri. Sebbene le strutture ricettive 'marine' (circa 47mila, con un milione e 587mila posti letto) siano il 33,3% del totale italiano e accolgano il 30,5% di presenze, l’impatto economico generato è del 26% (19 miliardi). A pesare è un’incidenza delle seconde case fortissima (il 56% delle presenze). Il mare degli italiani, insomma. Sotto casa. Con un Paese spaccato: il 50% delle presenze turistiche si registra al Nord, in particolare nell’area Adriatica, mentre al Sud a fronte del 70% di coste, si registra appena il 26% di presenze. Un potenziale inespresso che potrebbe essere (o avrebbe dovuto già essere da tempo) la vera alternativa italiana alle altre coste del Mediterraneo o del Mar Rosso. Una grande Sharm El-Sheikh di casa nostra, per intenderci.
Sul già fragile e complesso sistema del turismo balneare e sulle 30mila imprese che gestiscono le spiagge pesa infine come una spada di Damocle la direttiva 'servizi' conosciuta come Bolkenstein - la cui entrata in vigore è slittata al gennaio 2021 - che prevede la messa all’asta delle concessioni demaniali. Il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, ha annunciato una soluzione entro il 15 ottobre, cogliendo «l’occasione del semestre di presidenza europea per chiedere all’Ue il riconoscimento della specificità del nostro Paese». Le concessioni sono materia contestata, fra diritti 'acquisiti' dalle imprese che anche da decenni gestiscono lo stesso impianto, le regole del mercato e della concorrenza e il valore del bene pubblico. Le onde, in questa estate autunnale, sono dunque tante. L’economia del mare si è arenata sul leit motiv 'stessa spiaggia stesso mare', pensando che il sole potesse splendere sempre. Oggi, in un mondo sempre più globale e tecnologico, serve una meta, una rotta, una bussola. E un capitano, più o meno 'coraggioso', che guidi la nave di questo settore strategico. Un unico soggetto istituzionale del mare, come chiedono le associazioni che gravitano attorno alla Federazione del mare. Una rappresentanza chiara con cui interloquire. Evitando temuti naufragi. O improbabili 'inchini'.