Pensavamo di poter vedere tutto, con un mix invincibile. Ci siamo inventati i droni e i dirigibili da sorveglianza. Abbiamo piazzato in orbita decine di satelliti da osservazione. Mandiamo in pattuglia aerei spia. Ma il grande occhio elettronico è in panne. Gli sfugge tanto. Forse ancora troppo.
Jihadisti e guerriglieri hanno imparato a beffarlo e a dissimularsi. Hanno trovato nel sottosuolo un mantello d’invisibilità. Guardate Daesh nel fortino siro-iracheno. E Hamas a Gaza. Nel Libano meridionale, Hezbollah è in sé sinonimo di bunker e tunnel. E ha più volte messo in scacco l’arcinemico israeliano. Perché militarizzando il sottosuolo, ha eluso il potere aereo di Gerusalemme, ha fatto controsorveglianza a basso costo e si è garantito mobilità tattica. Pochi eserciti convenzionali sono preparati alla sfida. I jihadisti lo sanno. Hanno il tempo dalla loro. E ci dimostrano ogni giorno come fronteggiare schiere di armate infinitamente più potenti, incapaci di vincerli in guerra. È un gioco di opposti, una sfida titanica fra il tempo e la rapidità, fra l’ancoraggio nella dimensione sotterranea e lo stradominio del cielo e della superficie. È avvenuto in Vietnam, in Corea, a Gaza, in Afghanistan e nel Libano meridionale. Una costante storica, che ritorna nelle terre lugubri del califfato jihadista. A Mosul come a Raqqa, Daesh ha assoldato decine di genieri. Ha messo su una fitta rete di tunnel. Alcuni si inabissano fra un edificio e l’altro, un luogo di culto e una cava. Dall’alto non scorgi nulla. Non ne vedi l’ingresso, né l’uscita. I jihadisti li preferiscono alle vecchie trincee. Per i più brevi, scavano meno di un mese. Ma ne hanno di più lunghi e intricati. Le stime del Pentagono parlano di nove mesi di lavori. Non c’è manuale tattico jihadista che non consigli 'sentieri sotterranei'. Quando i peshmerga curdi hanno ripreso Sinjar e Kobane, ai reporter dell’Associated Press si è aperto un mondo semisconosciuto. C’era una città nella città. Tutta sotterranea, con tunnel di centinaia di metri, fra una casa e l’altra. C’era di tutto. Elettricità, armi, cartucce, copie del Corano e medicine. Nulla di strano per la ricercatrice Lina Khatib, dell’Arab Reform Initiative: «I tunnel sono insiti nella strategia di Daesh. Fin dal principio». Con i tunnel-bomba, sono saltati per aria i comandi iracheni di Thar Thar, sono cadute fortificazioni e sono morti centinaia di soldati regolari. C’è una sorta di internazionale jihadista del tunnel. L’asse Hezbollah-Iran-Nordcorea ce lo insegna. Si dirama anche nelle viscere della terra. Con una precisazione. I maestri più fini sono a Pyongyang.
Ci allarmiamo per i test nucleari, missilistici e spaziali del regime. Ma le due Coree combattono da una sessantina d’anni una vera e propria guerra dei tunnel. Quella del Nord ne ha fatto il mezzo principe di tutti i suoi piani d’invasione, per sottrarsi ai colpi inevitabili dell’aviazione e dell’artiglieria americanosudcoreana. Ecco perché il sottosuolo della zona smilitarizzata è come un gigantesco gruviera, fatto di tunnel, bunker e fortini. Qualcosa di simile c’è in Iran, in mano ai pasdaran. Una rete di basi sotterranee scavata a 400-500 metri di profondità, inarrivabile per qualsiasi bomba antibunker esistente. Le immagini della tv iraniana sono eloquenti. Lo scorso novembre hanno mostrato gallerie impressionanti. Alte forse una decina di metri e lunghissime. Centinaia di metri come minimo. L’intelligence ritiene ospitino anche rampe mobili di missili balistici. Una vera ossessione dei guardiani della rivoluzione, che si sono ripresi la scena l’11 ottobre sparando con successo il missile Emad. Di missili e razzi si vive anche alla frontiera nord e sud di Israele. Qui, i mentori nordcoreani e iraniani hanno fatto ottimi proseliti. Al punto che le migliori bombe israeliane sono quasi inermi di fonte alle difese sotterranee dei guerriglieri sciiti libanesi. Dopo la vittoria del 2006, Hezbollah non ha fatto che ramificare il complesso di tunnel e nascondigli sotterranei. Alcuni sono geniali, interconnessi da comunicazioni via cavo, impossibili da localizzare e intercettare. Non passa giorno nelle ultime settimane che i comandi di Tsahal non ripetano alla noia un mantra allarmante: anche Hamas avrebbe quasi ricostruito l’intera trama di tunnel disarticolata dai raid del 2014. Per il generale Gady Eisenkot, numero uno del 'Pentagono' israeliano, «eliminarla è la priorità delle forze armate». Ha lanciato l’ultimo monito il 9 febbraio. Solo che non va tanto per il sottile. Eisenkot è uno dei principali artefici della 'dottrina Dahiya', risposta draconiana alle guerre asimmetriche nella Striscia. Parla di bombardamenti 'sproporzionati' con l’aviazione tattica. Ha i tunnel di Hamas nel mirino. Soprattutto quelli offensivi, concepiti per ordire colpi di mano all’interno di Israele. Si tratta di opere di vera e propria ingegneria, non assimilabili alle gallerie che aggirano via Egitto il blocco israeliano. Hanno pareti in cemento armato. Corrono per diversi chilometri, a profondità di 10-30 metri nel sottosuolo. Alcune hanno sistemi di binari e minivagoni. Capacità offensive che si sommano a innovazioni difensive, come la famosa 'Gaza sub-Gaza', edificata per proteggere i comandi di Hamas, gli stock e parte dei combattenti. È la strategia dal debole al forte, o, se volete, da Davide a Golia. La stessa che usano i talebani e i qaedisti nell’inespugnabile Afghanistan. Qui imperano i karez, canali irrigui sotterranei che hanno fatto la fortuna delle secolari guerriglie afghane: li usarono i mujaheddin contro i sovietici, e li usano i talebani oggi. Ovunque, scovare i tunnel è un’impresa. Tecnologica innanzitutto. Quando si riesce, bisogna mandare i soldati a combattervi. E la clessidra della storia torna al Medioevo. Il Gps non passa, le comunicazioni radio si interrompono e i percorsi sono zeppi di mine. Gli israeliani stanno investendo decine di milioni nello sviluppo di micro-robot da esplorazione. E la start up Roboteam macina contratti con il suo Micro Tactical Ground Robot, che sniffa perfino gli esplosivi. È un gioiello di tecnologia. Pesa meno di 9 chili. È zeppo di camere e di sensori, anche laser. Rimanda immagini nitidissime in tempo reale. Aggira ostacoli e ritrasmette perfino i suoni circostanti. Gli americani non sono da meno. Sia perché sono quasi sempre in prima linea oltremare, sia perché hanno un problema al confine messicano (e canadese). Narcotrafficanti e criminali hanno scavato decine di tunnel transfrontalieri per far passare clandestini, droga, armi e compagnia bella. E il Pentagono sta correndo ai ripari. Si riaddestra alla guerra sotterranea, anche per spalleggiare l’Atf, la Dea o l’Fbi. Moltiplica i milioni per la ricerca e sta già sfornando microdroni come lo Spider e robot come il serpente Transformer. Tunnel e spazio cibernetico saranno i fronti opposti della guerra di domani. L’orizzonte della pace è troppo lontano.