Lettere. Trovare Gesù nel reparto di oncologia La Pasqua insegna a non avere paura
Caro Avvenire,
«Pasqua 2001. Abbiamo appena vissuto la Pasqua del Signore in tutte le sue tappe. Vorrei invitarvi a non dimenticare questa settimana, affinché resti un momento importante della vostra vita. Un modo potrebbe essere quello di soffermarsi ancora un po’ sull’immagine di Gesù sofferente e ricordarsi di pregare ogni giorno per TUTTE quelle persone che sono malate in modo grave. Oppure ancora più bello sarebbe andare a trovare Gesù, nei reparti di oncologia e radioterapia, per esempio. Vi assicuro che è facile incontrarlo ed è altrettanto facile portarlo. Questo potrà essere momento di Resurrezione anche per voi, che riscoprirete i tantissimi doni che Dio ci fa ogni giorno, e a quella persona, assetata dell’amore e del conforto del Padre, sarà come donare la miglior cura, che nessuno scienziato né medico potrà portare. Non vi lasciate impaurire dal come fare, ognuno di noi è ricco di risorse. Grazie da tutti noi, per i quali pregherete, e una buona Pasqua a tutti dai vostri fratelli malati».
Giada Mencagli (Livorno, 1974 - 2003)
Giada Mencagli era una ragazza di 25 anni quando, nel 1999, le fu diagnosticato un tumore multifocale nel cervelletto. Catechista fin da ragazzina, punto di riferimento per molti giovani della sua parrocchia, amava dire: «Chi cerca il Signore lo ha già trovato». Nel 1998 era andata pellegrina alla Sindone, a Torino, e aveva scritto pagine intense di diario su quel per lei indimenticabile incontro. Un anno dopo, quella diagnosi – quasi a Giada, giovane, bella, piena di vita, venisse chiesto tutto. Questa lettera, inviataci dalla sua famiglia, fu scritta dopo il secondo ciclo di chemioterapia. Giada combatté contro il cancro per quaranta lunghi mesi, sempre dando consolazione e speranza a chi le stava accanto.
Le sue parole della Pasqua del 2001, dopo già due anni di calvario, a distanza di 17 anni paiono scritte appena ieri. «Andate a trovare Cristo in un reparto di oncologia», dice Giada, che quei reparti ormai li conosce bene. Conosce la sua stanza, sempre affollata di amici, ma anche quelle di altri pazienti, soli tutto il giorno sul loro letto, il volto scarnito sul bianco della federa. Quel volto che, impallidendo, smagrendo, ogni giorno somiglia di più a un Cristo di El Greco. «Non vi lasciate impaurire», raccomanda Giada, sapendo che noi sani spesso abbiamo paura di quei reparti, nei quali zittiamo, e non troviamo più alcuna parola. Eppure, testimonia questa giovane donna dalla breve limpida vita, «è facile incontrarlo, e facile portarlo».
L’altra mattina, proprio andando in uno di quei reparti, cercando un amico, sono entrata nella stanza sbagliata. C’era, solo, a letto, un uomo molto vecchio, con tanti capelli candidi. Immediatamente ha capito che la visita non era per lui, non si è illuso. Però come ha sorriso, a me sconosciuta, con quale mite gentilezza negli occhi. Così che quel suo volto mi è rimasto impresso in mente, e per tutto il giorno ho continuato a pensarci, e non capivo perché. Che avesse ragione Giada, che sia facile incontrare Gesù, in quelle stanze di sofferenza? Senza nemmeno magari capire, restare trafitta dallo sguardo di uno sconosciuto. Che attende, e ha già compreso; e, di molto superata la ribellione, in quella mansuetudine somiglia, somiglia impercettibilmente a Qualcuno che hai sempre cercato.