Opinioni

Il serial Tv. I servitori della legge ignorati da «Gomorra»

Antonio Maria Mira venerdì 3 giugno 2016
Silvio Mirarchi, 54 anni, era maresciallo dei Carabinieri in servizio nella piccola Stazione di Ciavolo, nelle campagne marsalesi. È morto mercoledì sera per i colpi che lo hanno raggiunto alla schiena poco dopo aver individuato coi suoi colleghi una piantagione di cannabis in un’operazione antidroga. Nicola Barbato, 47 anni, sovrintendente della Polizia di Stato, il 24 settembre 2015 è stato gravemente ferito a Fuorigrotta durante un’operazione antiracket nella quale aveva individuato e fermato un estorsore. Da poco insignito della medaglia d’oro al valor civile, lotta per superare il grave trauma che lo ha bloccato in carrozzina. Il 18 maggio scorso il vicequestore aggiunto Daniele Manganaro e due agenti di Ps reagiscono prontamente all’agguato mortale contro il presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, salvandogli la vita. Tre storie recenti di una mafia che non ha certo dimenticato la violenza, che spara per uccidere e uccide. Oggi come ieri. Ma storie soprattutto di carabinieri e poliziotti che compiono fino in fondo il proprio dovere correndo gravi rischi e pagando con la vita. Servitori dello Stato, efficienti e efficaci investigatori. Ma per loro, e per tantissimi bravi colleghi, il cult televisivo Gomorra non trova neanche lo spazio di un minuto. Nella narrazione degli scontri tra gruppi e fazioni camorriste ci sono solo gli altri: boss, killer, guardaspalle, vedette... Fanno affari, si spartiscono le piazze di spaccio, si alleano e si sparano. Solo tra loro. Unici protagonisti e comprimari. Non una divisa, non un lampeggiante, non un posto di blocco, non un controllo, non una retata, non un arresto. Solo quegli altri, camorristi in azione tra le “vele” di Scampia e i palazzoni di Secondigliano. Presenza incontrastata, se non da altri camorristi. È la rappresentazione del male, si giustificano gli autori a partire da Roberto Saviano. Un male assoluto il cui racconto ci dovrebbe far reagire. Fiction per cambiare la realtà. Ma poi la realtà ci piomba in casa con le immagini vere dove i protagonisti sono diversi. Quelli che difendono la legge che fonda la civile convivenza, quelli che nelle fiction non ci sono mai. Li scopriamo con nomi e cognomi però solo quando pagano con la vita o quando, correndo gravi rischi, salvano quelle dei concittadini. Anche perché è difficile (anche per motivi di sicurezza) sapere i nomi quando arrestano o interrompono qualche affare illecito. Ma ci sono sempre. Li incontro spesso nei miei viaggi nelle zone più calde del Sud. Sono gli uomini delle scorte di magistrati, imprenditori e giornalisti “sotto tiro”. Sono giovani capitani di paesi difficili come Gioia Tauro e Casal di Principe. Sono esperti questori, come quelli di Napoli, Caserta e Reggio Calabria, sempre presenti anche per sostenere le belle iniziative di associazioni e chiese locali (altri “resistenti” al male ignorati da certe fiction). Per tutti loro non c’è cittadinanza nelle Gomorre tv. Non è una questione morale, ma di verità, di completezza della realtà. Si racconta solo una parte, come se fosse il tutto. Certo i “cattivi” muoiono tra lussi e potere. E se la giocano e se la cantano da soli. Decidono e fanno. Sono la legge, senza democrazia e libertà, fatta di regole arbitrarie e definitive, pena di morte compresa. Tra droga, soldi e violenza. Una sorta di sanguinaria “Ragazzi della via Pal” partenopea. E se niente e nessun altro ha spazio e cittadinanza, alla fine sono loro i “modelli”, soprattutto per i ragazzi che vivono dove sembra non esserci alternativa, come avvertono esperti come Raffaele Cantone e pm di prima linea come Catello Maresca e Giovanni Conzo.  Ce lo aveva detto pochi giorni fa, con amarezza, anche Annalina, figlia del maresciallo Gerardo D’Arminio ucciso ad Afragola il 5 gennaio 1976, anche lui colpito alle spalle come il maresciallo Mirarchi. «Da Gomorra parte solo un messaggio diseducativo, di morte. Un messaggio facile, che arriva prima. Per mio padre e i suoi colleghi non c’è posto». Le mafie non mollano vecchi affari come la droga, le estorsioni e perfino i contributi agricoli e l’ambiente. E sparano a chi glieli vuole togliere. È la solita, e drammatica, storia di “guardie e ladri”. Ma questa è la realtà. Di chi lavora, con fatica e non troppi soldi (altro che il lusso dei camorristi da fiction), per far rispettare la legge (ma quella vera) e costruire le condizioni di una convivenza senza soprusi. Accade tutti i giorni, con impegno, con sacrificio, anche con la morte dei giusti. Ma spazio nella tv di successo per loro non c’è. Troppo veri.