Occhi aperti su razzismo e suprematismo. Prima che sia troppo tardi
L’impressionante sequenza di omicidi di massa negli Stati Uniti riporta in primissimo piano una questione scomoda per le società avanzate: il razzismo. Della sua persistenza e delle sue trasformazioni, dei suoi rapporti con il discorso politico, con i social media e con l’inquietudine sociale. Malgrado decenni di sforzi, di misure legislative e di importanti conquiste, il Paese-guida del mondo occidentale non è riuscito a scrollarsi di dosso questo antico fardello. Anzi, ha visto risorgere nel suo composito corpo sociale un suprematismo bianco che ha contribuito alla vittoria elettorale di Donald Trump e al quale il presidente in carica continua ad ammiccare. Per questo gli assassini non possono essere sbrigativamente liquidati come paranoici solitari: hanno attinto la benzina dell’odio dalle cisterne avvelenate di una cultura e di una politica che individua i “diversi” come nemici, s’inventa minacce di sopraffazione per l’uomo bianco, incita alla guerra in difesa di una civiltà superiore e descritta sotto attacco.
Il razzismo attuale tende inoltre a trovare nuovi bersagli: negli Stati Uniti non sono più in cima alla lista gli afroamericani, ma piuttosto le minoranze ispaniche e in prevalenza cattoliche, come le dichiarazioni degli attentatori dell’ultimo weekend hanno posto in luce. Gli allarmi sull’(inesistente) invasione dal Messico e dall’America centrale, trasformata in questione politica decisiva per la società statunitense, hanno fatto breccia. In altri casi i bersagli sono i musulmani, come in Nuova Zelanda.
Oppure gli ebrei, come è successo ancora negli Stati Uniti, in quanto accusati di propagandare liberalismo e tolleranza. La questione del conflitto razziale classico cede il passo a motivazioni legate all’identità culturale, a territori da difendere, ad asseriti valori da preservare. In questo senso si arriva a ridurre il cristianesimo a un repertorio di “simboli culturali” da inalberare, stravolgendoli e staccandoli dal Vangelo, dare forma e giustificazione all’ostilità aggressiva verso altri. Un secondo aspetto spinoso del razzismo contemporaneo è il suo rapporto con i discorsi d’odio sui canali della comunicazione digitale.
Si pensi per esempio alle teorie cospirazioniste sui piani di sostituzione della popolazione bianca con popolazioni africane, mediorientali, asiatiche, che hanno conosciuto un notevole successo anche in Italia. Abbiamo da un lato comuni cittadini, quasi sempre inoffensivi, che di fronte a uno schermo e a una tastiera, soli con se stessi, si trasformano in fanatici propagatori delle peggiori nefandezze che lo spirito umano possa produrre. Forniscono loro pseudo- argomenti e munizioni emotive i produttori di fake news, per ragioni politiche o anche soltanto economiche: ogni clic frutta qualcosa.
Alla fine della catena troviamo i pochi ma letali “guerrieri dell’odio”: quelli che non solo prendono sul serio le presunte minacce, ma imbracciano le armi gridando di volerle fermare. Oppure tirano pietre a persone dalla pelle scura che vanno al lavoro o camminano per strada, come sta accadendo in Italia. Il terzo disturbante ma ineludibile nodo del neo-razzismo armato è il suo rapporto con la dialettica politica. Le trasformazioni del Partito repubblicano negli Stati Uniti sotto la pressione di Trump, del centrodestra italiano, del nazionalismo polacco ne sono inquietanti testimonianze: quello che un tempo in politica si chiamava “moderatismo” cresce nei consensi assumendo istanze, toni e formule espressive prossime all’estremismo nativista. Qualcuno dirà che cavalcando la tigre l’addomesticano, che riconvertono pulsioni violente in battaglie democratiche. Ma il rischio che i discorsi dall’alto legittimino e diffondano la violenza dal basso è ogni giorno più consistente. In ogni caso, la sproporzione tra le misure di difesa nei confronti dell’estremismo islamista e la noncuranza nei confronti della violenza suprematista sta assumendo dimensioni drammatiche. La seconda non è meno pericolosa del primo. Muoviamoci tutti, prima che sia troppo tardi.
Sociologo, Università di Milano e Cnel