Opinioni

Dietro il caso Divella la questione della tracciabilità. Quel tricolore sugli spaghetti e il sapore del vero “Made in Italy”

Paolo Massobrio sabato 3 agosto 2013
La pasta con il tricolore è una bugia ? Sì! Ni! No! Il caso della Pasta Divella, infatti, che si fregia del tricolore anche se la materia prima proviene dai granai esteri, sta riportando in auge una vecchia discussione che si presta alle più svariate interpretazioni. Quasi come i risultati elettorali dove, alla fine, non si riesce mai a capire chi abbia vinto. Intanto è partita la prima indagine, a cura del Corpo forestale di Bari, che potrebbe essere fascicolata col nome "al chilometro zero".Secondo la legge italiana (o meglio un’interpretazione della legge), il tricolore non sarebbe veritiero, mentre la solidarietà industriale sostiene che italiano è il savoir faire (ma questa è una parola francese, accidenti!), e basta quello. E tra il dire il fare c’è di mezzo anche la bresaola prodotta con la carne di zebù o i prosciutti che portano il nome di questa o quella località, anche se i maiali vengono allevati, per entrambi i casi, nella medesima località che non è né Parma e né San Daniele: l’importante è che sia padana (ma qui la Lega non centra).Come si risolverà questa faccenda? Probabilmente all’italiana, ossia con una pezza che alla fine permette di fare tutto e il contrario di tutto, anche se la Coldiretti ne ha fatto una questione di principio e anche una battaglia, portando al centro di un dibattito, e non da oggi, la produzione al 100% con materie prime nostrane. Certo fa sorridere che la medesima severità non venga applicata sui mercati esteri, dove qualunque cosa si fregia d’essere italiana anche se non lo è. Lo fanno i ristoranti cosiddetti italiani, lo fanno i prodotti della nostra origine che vengono imitati senza colpo ferire.Poche settimane fa ad una grande festa del Roero, che è una zona vitivinicolala divisa dalle Langhe dal fiume Tanaro, un giornalista ha candidamente raccontato che l’Arneis, il glorioso vino locale bianco, si trova anche nei locali inglesi. Ma nessuna delle bottiglie che ha assaggiato erano prodotte in Italia. Il giornalista ha raccontato questo fatto come se l’Arneis avesse preso una medaglia, quasi che l’imitazione, alla fine, diventasse un merito, quando in realtà è un danno per l’economia locale. Ma che è successo quella sera di luglio a Monteu Roero, davanti ad autorità e giornalisti ? Nulla di nulla: tutti a tavola a gustare la cucina con l’Arneis (italiano) per scacciare il caldo.La verità è che troppe nostre produzioni prestano facilmente il fianco all’imitazione, soprattutto nel vino, dove i nomi sono legati a un vitigno, anziché a una zona di produzione o a un paese. E se Barbaresco e Barolo, che hanno identità certe essendo nomi di paesi, non si possono toccare, al contrario nebbiolo, sangiovese e grignolino, che è pure il vitigno della terra del papa, si possono coltivare ovunque. Anche la pasta con il grano canadese, in teoria, si può produrre in ogni parte del mondo. E sotto il nome di Spaghetti, che evoca un qualcosa di intimamente italiano, si può giocare una presa in giro. Ecco dove sta il nodo della bandierina tricolore: nella tracciabilità.