Opinioni

I buoni segnali e i nostri doveri. Tre indizi, un compito

Marco Girardo giovedì 29 dicembre 2011
Una delle lezioni di questa crisi finanziaria glo­bale è che con le previsioni bisogna andarci piano. Fior di economisti, sparute le eccezioni, del tracollo Lehman Brothers si sono accorti il giorno dopo inciampando sulle macerie, e dell’incendio greco hanno respirato solo il fumo quando le fiam­me erano ormai divampate in mezza Europa. C’è sempre un 'cigno nero', un fatto imprevedibile, pronto ad alzarsi sull’orizzonte delle modellizza­zioni matematiche delle stime econometriche. Ec­co perché non conviene cantare troppo presto vit­toria dopo l’ultima asta dei titoli di Stato, che ha vi­sto ieri dimezzarsi i rendimenti dei Bot a sei mesi (anche se il famigerato spread, quello delle emis­sioni decennali, ha continuato a ballare pericolo­samente sopra il tetto dei 500 punti). Oggi con i Btp ci sarà una nuova prova del nove. Ma è soprattutto in primavera che l’Italia dovrà scalare la montagna più alta, con emissioni per 150 miliardi di euro. Tanto per avere un termine di paragone, nel 2001 i mercati finanziari mondiali sono stati violente­mente scossi dal crac argentino su 95 miliardi di dollari di debito pubblico. Ad oggi rimane il più grande default sovrano della storia. Lehman Brothers, invece, prima della bancarotta, era in pas­sivo per 613 miliardi di dollari: l’Italia ha un debito sovrano quattro volte superiore. Il terreno rimane dunque minato. A ogni asta è in­dispensabile camminare in punta di piedi e sul buon fine della traversata molto influiranno la capacità italiana di rilanciare la crescita e la determinazione europea nel perseguire un’unione fiscale coronata da un ruolo potenziato per la sua Banca centrale. Resta un fatto, tuttavia, che l’ultima asta del 2011 per i Bot, in un contesto difficilissimo e fra le mille preoc­cupazioni della vigilia, è andata piuttosto bene. C’è stata addirittura una corsa ad accaparrarsi i 9 mi­liardi di titoli offerti, tanto da decomprimerne con vigore i rendimenti. Un segnale che non va trascu­rato. Niente previsioni, si è detto. Ma se provassi­mo a trasformare il racconto della crisi nella trama di un giallo, potremmo allora considerare l’esito dell’emissione come un primo indizio sulla tenu­ta del debito italiano. A cui si potrebbe aggiungere un secondo spulciando fra le ricerche prodotte dal­l’ufficio studi della banca svizzera Ubs, finora mai tenera – anzi, tutt’altro – nei suoi giudizi sulle fi­nanze di Roma. Dal fortino elvetico del franco, infatti, insieme alla cugina Credit Suisse, Ubs era stata fra le prime a consigliare ai propri clienti e agli investitori in ge­nerale di allontanarsi il più velocemente possibile da Bot e Btp. Preconizzando un massacro. Ora in­serisce invece fra le dieci possibili 'sorprese per il 2012' addirittura un 'upgrade' del debito sovrano italiano. Immagina cioè che il nostro rating, il giu­dizio che misura la capacità di uno Stato di onora­re gli impegni, venga alzato e non ulteriormente ab­bassato. «Sì, stai leggendo bene», ribadisce il colos­so svizzero nel suo report: «Non è impossibile». Alla ricerca della classica 'prova' – restando nel­l’ambito del thriller finanziario e non nel campo delle previsioni economiche – aggiungiamo pure un terzo indizio lasciato sul luogo del possibile de­litto nientemeno che da George Soros, che nell’im­maginario collettivo ha vestito spesso i panni del 'grande vecchio' della finanza mondiale. Fu pro­prio lui a sparare vent’anni fa contro lira e sterlina qualcosa come un miliardo di dollari, costringen­do entrambe le valute ad abbandonare il Sistema monetario europeo. Se non è speculazione questa... In pochi allora pensavano che sarebbe riuscito nel suo intento, ma fu lui a vincere e intascare una va­langa di soldi. Soros ha appena comprato un miliardo e mezzo di dollari in titoli di Stato italiani 'approfittando' del fallimento della statunitense Mf Global Holdings, società di brokeraggio che ha fatto crac per aver scommesso sui bond sovrani europei nel momen­to in cui le grandi banche e i fondi d’investimento li stavano invece vendendo a man bassa. Se il fi­nanziere d’assalto non ha perso il suo proverbiale talento e ha fiutato ancora una volta prima degli al­tri l’affare, presto si potrebbe registrare un ritorno d’interesse dei grandi capitali – soprattutto ameri­cani – per i nostri titoli di Stato. E se i flussi finan­ziari ritornano, i prezzi dei titoli aumentano e i lo­ro rendimenti calano, raffreddando di conseguen­za il differenziale con gli inossidabili Bund tedeschi. Tutto ancora da verificare, certo. E non è detto che basti ad allontanare l’incubo spread o scongiurare la visione del prossimo 'cigno nero'. Ma quanto meno, in questo cupo scorcio di fine anno, dal 'ru­more bianco' dei mercati finanziari arrivano an­che questi tre segnali. Sono anch’essi la conseguenza dei sacrifici ai quali gli italiani si stanno assogget­tando e della fatica del rilancio. Non un puro e sem­plice motivo di sollievo, ma la conferma di un com­pito comune da assolvere. Per noi stessi.