Dibattito. L'impegno politico dei cattolici italiani, tre questioni con cui misurarsi
«Ciò che oggi manca non è certo la visibilità politica dei cattolici, ma la rilevanza del cattolicesimo per la politica». È la frase chiave su cui gira l’analisi di Luca Diotallevi pubblicata su “Avvenire” del 6 gennaio 2017 che riprende un tema presente da sempre sulle pagine di questo giornale e approfondisce un filo di ragionamento che, alla sua maniera, Francesco Gagliardi aveva cominciato a snodare poco più di un mese fa, il 7 dicembre 2016, all’indomani del referendum costituzionale. Mi sembra un appello a rimettersi in gioco in modo pienamente politico al quale un movimento, come il Movimento Cristiano Lavoratori, nato nel cuore della tradizione e della storia del cattolicesimo sociale in Italia, non può sottrarsi. Va detto, in primo luogo, che è ben condivisibile porre a quadro di tutto il ragionamento la straordinaria gravità delle condizioni del nostro Paese nella interconnessione con le profonde difficoltà che attraversano l’Europa e la società globale. È giusto partire dalla «gravità dello stato della politica»: uno stato di delegittimazione così pesante come mai si era verificato prima. Altrettanto opportuno è, anche, chiamare in causa – discorso niente affatto nuovo sulle colonne di questo giornale – le responsabilità dei cattolici italiani «perché in Italia e in Europa solo con il contributo dei cattolici ci si è ripresi dalle tragedie e dai fallimenti politici del Novecento»: ma diventa, anche, essenziale, mettere a fuoco ciò che oggi rende, più che mai strategico l’apporto dei cattolici: la questione identitaria.
Questione che, strettamente intrecciata allo sconvolgimento economico e all’impoverimento di massa determinati da una globalizzazione selvaggia, è il principale cavallo di battaglia di tutti gli estremismi che, su questa situazione di disperazione, lucrano consensi. Ma le radici dell’identità italiana ed europea affondano nei princìpi e nei valori della cristianità; e, proprio per questo, chi più dei cattolici può essere credibile nell’assumere una linea identitaria forte e determinata, ma equilibrata, solidale e capace di togliere, davvero, acqua al mulino degli estremismi? Ma tutto ciò diventa possibile solo a patto di esprimere una proposta politicamente rilevante, forte, capace di tornare a connettere interessi e valori e di riportare in politica una parola di verità; anche con il coraggio di una profonda autocritica. Tre sono le questioni, a mio avviso, con le quali misurarsi: l’Europa che vogliamo; «l’economia che uccide»; il necessario radicamento sul territorio della democrazia. Per quanto riguarda l’Europa è chiaro che «l’Europa che vogliamo» non può essere un’Unione subalterna a una cultura tecnocratica ed elitaria. Deve essere un’Unione che riscopre le sue radici popolari, solidale, politica, democratica vicina ai cittadini europei che debbono potervisi riconoscere come in una preziosa «più grande patria».
Centrale è anche la questione dell’economia. «L’economia che uccide» non è un’espressione provocatoria: è una dura realtà. La globalizzazione e l’egemonia della finanza sull’economia reale hanno sconvolto gli assetti sociali; marginalizzato il lavoro rendendolo una variabile dipendente dal profitto; avviato lo smantellamento del Welfare; determinato una inaccettabile lievitazione della disoccupazione, soprattutto giovanile; impoverito le classi medie e ridotto alla miseria i ceti più deboli; creato sacche di vera povertà che ormai, anche in Italia, coinvolgono milioni di famiglie. Tutto ciò mentre si approfondiscono le diseguaglianze, aumenta la concentrazione della ricchezza e si è bloccato ogni ascensore sociale. Una situazione che dobbiamo affrontare con trasparenza e coraggio. Altrettanto impegno deve essere posto sulla questione del radicamento nel territorio e nella riscoperta delle radici popolari. Deve esser ben chiaro che una democrazia sradicata dal territorio, dai suoi valori e dai suoi corpi intermedi – come quella imposta in questi anni nel nostro Paese – diventa presto una democrazia senz’anima e, alla fine, una “non democrazia”. La democrazia virtuale e mediatica non esiste. Va ricreato il rapporto vitale tra politica, istituzioni, territorio e popolo. Anche in questo l’apporto del cattolicesimo politico è determinante. Occorre il coraggio di ascoltare, di ascoltarci, e di andare avanti. Non possiamo esimerci come cattolici di fare delle proposte, di farci carico delle nostre responsabilità e indicare un percorso dal quale partire: non una traccia astratta, ma impegni concreti sui temi sensibili, perché è nelle sfide della realtà di tutti i giorni che si gioca la possibilità di camminare insieme.